CONFERENZA BOSTON

venerdì 26 agosto 2011



" Les Tables d'Offrande et les cèrèmonies funèraires a Mèroè - Egypte -Yemen "



Settembre 2004

mercoledì 9 marzo 2011

" La Collezione di Francesco Camillo VII Massimo "
Roma 1990
L'Antica Stamperia dei Principi Massimo
Roma 2003
Alla Scoperta del Barocco Italiano: La Collezione Denis Mahon
Roma 1999

PERIN DEL VAGA A PALAZZO MASSIMO ALLE COLONNE

Perin del Vaga a Palazzo Massimo alle Colonne - Roma 1998

Iside: dall'Egitto a Roma - Roma 1995
L'Egitto a Roma

Roma 1994
Considerazioni su Alcune Tavole d'Offerta del Museo Egizio Vaticano

Roma 1999
Una Stele " Egizia " nei Giardini di Palazzo Barberini

Roma 2002

LE CATACOMBE DI PRISCILLA


Le Catacombe di Priscilla
Roma 2008

Maria Luisa  de Gasperis

Lungo i muri che circondano la Catacomba di Priscilla si possono vedere delle decorazioni che rappresentano alcune scene che per quel periodo si possono definire “ uniche “ . Si può ammirare all’interno di una fascia che riproduce delle cornici dipinte, in assetto verticale con appoggio sulla parte della fascia corta a destra del quadro, una immagine della Madonna con il bambino ed il profeta Balaam che è seduto su un trono con tra le braccia il Bambino Gesù e davanti a lei l’immagine di Balaam in piedi che con la mano destra tesa verso l’alto indica una stella che è dipinta proprio al centro della scena. Si può veder anche, una iconografia nuova come quella del Buon Pastore che pur essendo stata ritratta molte volte, nessuna è paragonabile alla leggiadria di quella che si trova nella catacomba di Priscilla; essa rappresenta un giovane con l’agnello sulle spalle e due pecore ai suoi piedi circondato da alberi dai quali discendono fronde colme di fiori rossi: è considerata una eccezione poiché è in bassorilievo, tutta completamente in stucco. Ognuno dei vani descritti fa parte del primo piano della catacomba di Priscilla e rappresenta la parte più antica del luogo ma esiste, come si è precedentemente accennato, un secondo piano che però è architettonicamente ubicato in maniera completamente diversa. Si arriva attraverso una scala che raggiunge una galleria con murature ed archi risalenti al IV^ secolo. Da essa si estendono bel venti altre gallerie laterali ed al centro di esse si intravede un grande lucernario. Un altro scalone conduce ad un pozzo molto profondo e questo dimostra l’importanza dell’utilizzo dei pozzi che si trovano in tutte le catacombe; si ritiene che servissero alle opere murarie di sostegno o fossero usati per sigillare le lastre nei pressi dei loculi.. Pertanto, dopo accurate analisi si può ritenere che la parte più antica della catacomba di Priscilla vada identificata con l” “ arenario “ che si pensa esistesse già dalla prima metà del II^ secolo. Si ritiene inoltre che la maggior parte delle pitture possano essere attribuite cronologicamente al periodo che va dalla fine del III^ secolo agli inizi del IV^ secolo d.C. Purtroppo, al di sopra di alcune pitture, sono state aggiunte alcune firme apposte con il carbone una delle quali appartenente ad un tale “ Antonius Bosius “ ( 1575-1629 ).




















The Religious Experience From Divinities to
Offering Table - Yemen - 2010-

THE ANTINOO'STATUE IN THE VATICAN MUSEUM



" The Antinoo's Statue in The Vatican Museum "
The Cultural Heritage Btween Egypt and Russia
Humanities UniversitY of Russia MoscoW
At Helewan University, Ainhelwan Cairo
Faculty of Art Helwan University - Cairo -
may 2005
STATUA DI ANTINOO NEL MUSEO VATICANO EGIZIO DI ROMA

Maria Luisa De Gasperis





La statua di Antinoo-Osiride, che si trova nel Museo Gregoriano Egizio Vaticano rappresenta il giovane bitinio di Claudiopoli, Antinoo stante, in costume egizio col “ nemes “ che gli incornicia il capo e il gonnellino “ scendit “ che ne avvolge le membra.

Lo schema compositivo si richiama allo stile ideale egizio anche se il modello è palesemente tratto da capolavori greci dell’età antica ed ellenistica secondo l’indirizzo classicheggiante che l’arte assume durante il regno dell’imperatore filelleno.

La statua di Antinoo, alta ca. due metri, fu scoperta nella Vigna Michilli nel 1740 e nel 1742 lo stesso Michilli ne fece dono al pontefice Benedetto XIV che la collocò in Campidoglio, successivamente nel 1838 il pezzo fu trasferito in Vaticano dove ancora adesso si può ammirare.

Antinoo durante il viaggio compiuto in Egitto nel 130 morì appena ventenne in maniera misteriosa annegato, si narra, nel canale detto Canopo che collegava Alessandria al ramo principale del Nilo.

La figura del giovinetto ha continuato la sua sopravvivenza attraverso l’assimilazione con Osiride, il dio egizio che muore e rinasce.

A sua volta associato dai Tolomei a Serapide, divenne la divinità legata alla salvezza alessandrina del fiume Nilo.

Il nome Antinoo che significa floridezza e rinascita, qualità che in Grecia erano attribuite a Dioniso, tanto che Erodoto stesso in uno dei suoi viaggi in terra egizia sembra aver riconosciuto in Antinoo il Dioniso egizio; successivamente sarà assimilato per la sua bellezza idealizzata e la personalità malinconica ed enigmatica, al pensiero filosofico dell’imperatore Adriano che, si narra, lo amò appassionatamente e al quale fu strettamente legato.

Adriano patì grande sofferenza per la perdita del suo giovane amante e sentì questa morte come il sacrificio del giovinetto immolatosi per lui e per la sua gloria.

Non è un caso che essa sia avvenuta nel momento in cui alcuni settori dell’impero stavano subendo dei sovvertimenti e la salute dell’imperatore, provata da questi problemi ne risentisse dolorosamente.

Adriano forse credette nel suicidio volontario di Antinoo quasi ad ubbidire ad un ordine della divinità, come si legge su un epitaffio; questo naturalmente trasformò il giovinetto in una divinità eroica: il suo corpo fu quindi mummificato e collocato in una delle tombe dedicate a Ramses II.

Naturalmente tutto questo potrebbe essere frutto di una leggenda più che di fatti reali.

Resta però accertato che Adriano edificò sul villaggio di Bise lungo il bordo del Nilo la città cui pose il nome di Antinopolis nel sito dove fu ritrovato il corpo di Antinoo e vi fece costruire un magnifico tempio, di cui rimangono tracce nel grandioso ingresso colonnato, istituendovi un nuovo culto in onore del giovane amante.

La città di Antinopolis si trova in una zona in cui il deserto arriva alle sponde del Nilo lasciando una sottilissima striscia di terreno fertile a dividere i due tratti.

Nella “ Description de l’Egypte “ del periodo napoleonico, si trovano delle piante della città servite alle missioni archeologiche che si sono succedute in questo sito, in particolare nella zona antistante il tempio faraonico e l’altra nel cosiddetto “ Tempio di Isi “, al termine della antica strada principale che collegava il Nilo al deserto attraverso antiche vie carovaniere che conducevano ai mercati del Mar Rosso.

Di ritorno a Roma, Adriano fece scolpire dei busti di Antinoo per conservare la sua immagine e fece coniare molte monete.

In questo modo il ricordo di Antinoo rimase vivo anche nella cultura romana creando molteplici manifestazioni artistiche come quella di cui stiamo parlando.

L’opera risente delle intenzioni di Adriano che ammirava molto più il periodo classico dell’arte greca piuttosto che quello dell’arte ellenistica e ne amava la squisita bellezza e l’equilibrio pregevole delle proporzioni tanto che esse furono tutte riassunte nella statua di Antinoo.

Pertanto l’imperatore dette impulso alla diffusione di opere di questa tipologia e in questo contesto si creò una interrelazione tra l’ellenistico e il classico, il romano e il greco armonizzati e connessi a motivi squisitamente locali infatti nell’esaminare la statua di Antinoo si ravvisa con evidenza l’apporto di tutte queste componenti.

In questa maniera il “ bitino “ formò, suo malgrado, il nuovo canone di bellezza ed il miglior esempio di ritratto di giovane che ricorda anche i Kuoros, divenendo nello stesso tempo una verità sia reale sia ideale, tanto che molte delle sue statue furono ritrovate in ogni parte dell’impero.

Se ne ha un esempio nel ritrovamento di una sua statua nello scavo effettuato a Delphi nel 1894 e che si trova attualmente nel Museo della stessa città.

Il culto di Antinoo fu destinato così ad avere un influenza sull’arte ed a creare anche una interessante e delicata intromissione in moltissimi ideali religiosi dell’impero romano.

Sarà interessante concludere soffermandoci sul luogo del ritrovamento.

Si tratta della Villa Adriana, costruita dal 118 al 134 ca. da Adriano che ne curò la progettazione e che nel suo insieme rievoca i luoghi e gli edifici che più colpirono l’Imperatore nei suoi viaggi nelle provincie romane.

Sorge a circa 20 km. da Tivoli, fiorente e antica cittadina del Lazio che fin dall’antichità fu terra di grandi vicende storiche e archeologiche; situata sulle rive del fiume Aniene che l’attraversa; nel suo territorio si possono scorgere le vestigia di antichi monumenti che risalgono ad epoche remote.

In particolare , per commemorare Antinoo, Adriano vi fece ricostruire il Canopo, uno dei più suggestivi complessi architettonici che fanno parte della grande villa e che prende il nome dal ramo del Nilo che conduce da Alessandria alla città omonima; il percorso che fiancheggiava il lungo bacino detto il Pecile, concludeva il Santuario di Serapide ( Serapeo), una articolata struttura architettonica composta da una vasca rettangolare inquadrata all’interno di una esedra, seguita da una galleria con piscina stretta e lunga.

L’intero complesso del Pecile e del Canopo era una trasposizione architettonica della realtà geografica rispettivamente del Mediterraneo e della Valle del fiume Nilo, simboleggiato dall’ardita composizione dell’esedra del Serapeo, raffigurante il Delta e il Canopo vero e proprio, suddiviso in due parti il Basso e l’Alto Egitto coronato da un grandioso Ninfeo adornato da meravigliose statue.

La Villa dopo la morte di Adriano fu soggetta a una rapida decadenza e molteplici espoliazioni; durante il Medioevo divenne cava di materiale di recupero per la costruzione di altri edifici.

L’impianto fu riscoperto nel 1450 e da allora continui scavi hanno riportato alla luce le strutture, le sculture, tra le quali molte opere egittizzanti.

Nella Villa Adriana è stato scoperto recentemente dalla Sovrintendenza Archeologica del Lazio, l’ “ Antinoeion “, il tempio che sembra aver avuto la funzione di luogo della memoria per tenere vivo il ricordo di Antinoo , il bellissimo fanciullo di origine bitinia.

Nel 2002 fu ritrovato un monumento situato lungo la strada d’accesso al grande Vestibolo davanti alle “ Cento Camerelle “: era un edificio costituito da un’ampia esedra semicircolare preceduta da un recinto rettangolare che racchiudeva due templi affrontati.

Le parti più significative appartengono alla decorazione interna della cella dei templi tra cui si segnalano blocchi con raffigurazioni in bassorilievo ispirate al repertorio religioso egizio.

Il ritrovamento che ha destato maggiore interesse riguarda una serie di frammenti di statue in marmo nero, relative a divinità egizie o a figure di sacerdoti e offerenti, tra cui anche il pilastro dorsale con la scritta in geroglifico di una statua originale del faraone Ramses II , importata direttamente dal delta del Nilo.

E per concludere, si ricorda l’Obelisco del Pincio a Roma che si trova in questo luogo dal 1822 trasferito dal papa Clemente XIV, che sembra dovesse celebrare il culto di Antinoo, la santità di Adriano e della moglie Sabina.

Forse originariamente fu eretto nella città di Antinopolis e non si sa come giunse a Roma ma probabilmente con molte altre opere che furono portate nella città dall’Egitto e da altri paesi lontani.

L’Obelisco fu trovato nel vigneto che apparteneva alla famiglia Saccocci, nei resti di un circo romano.

I pezzi furono dati ai principi Barberini nel 1663 che li lasciarono nei loro giardini fino a che i principi stessi offrirono l’Obelisco al Vaticano nel 1770.

Su di esso si leggono caratteri geroglifici e Champollion fu il primo a leggere il nome di Antinoo.



martedì 8 marzo 2011

Un Mercante Veneziano nell'Egitto Ottomano

Il Cairo Egitto 2004

ABBAZIA DI SANTA MARIA IN SYLVIS Sesto a Reghena

















Abbazia di Santa Maria in Sylvis - Sesto a Reghena - 1985 -

L’ABBAZIA DI SANTA MARIA IN SYLVIS - SESTO AL REGHENA


Maria Luisa de Gasperis





Lo studio dell’Abbazia di Santa Maria in Sylvis a Sesto al Reghena (Pordenone), è stato realizzato allo scopo di individuare ed evidenziare i particolari stilistici ed iconografici che rimandano a Giotto ed alla sua scuola, sottolineandone l’importanza assunta nella diffusione del giottismo nelle Venezie e nel Friuli.

Alla fine del ‘200, Giotto introdusse nella pittura delle grandi innovazioni che riguardarono l’illusionismo architettonico, la metrica spaziale, la semplificazione e definizione delle architetture, la composizione attuata attraverso indicazioni di spazi tridimensionali quali finti zoccoli, decorazioni marmoree con inserite figurazioni, fasce decorative; introdusse inoltre la rappresentazione fedele della storia e del costume attraverso l’aspetto dimesso e realistico di alcune figure e l’attenzione per la realtà oggettuale circostante: dalla trasposizione del quotidiano al solenne, dal normale al sublime, dalla rappresentazione garbata e di straordinaria finezza alla fisicità corporea nelle figure; innovazioni che emergeranno con evidenza dallo studio degli affreschi.

Premessi alcuni brevi cenni storici, necessari per seguire almeno per sommi capi le vicende dell’Abbazia, lo studio sarà condotto attraverso la descrizione, ancorché sommaria, dell’architettura del complesso abbaziale ed il successivo esame più approfondito degli affreschi; seguirà da ultimo un esame critico di questi, tendente a porne in risalto la peculiarità da confrontare con quelle giottesche citate.



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Soltanto dalla prima metà del ‘700 si può cominciare a tracciare, attraverso l’analisi di documentazioni, la storia di questa Abbazia, della quale purtroppo non esistono documenti che possano comprovare la prima formazione.

Mons. Pietro Furlanis, Abate del complesso che nel 1987 ha compiuto una ricerca in tal senso, ritiene che la Chiesa primitiva venisse costruita fra il 730 ed il 735 da alcuni monaci benedettini, che si stabilirono a Sesto al Reghena nella prima metà dell’ VIII secolo.

Il primo documento pervenuto, peraltro in copia trascritta, è l’Atto Nonantoliano*, del 3 maggio 762, stilato a Nonantola presso Modena; con tale atto, i fratelli longobardi Erfone, Marco ed Anto, figli di Pietro duca del Friuli e di Piltrude, donarono ai Benedettini che vivevano nei monasteri di Sesto e di Salto presso Cividale tutte le loro sostanze e le vaste proprietà che possedevano nel Friuli, fra Tagliamento e Livenza, e specificamente le tre corti e giurisdizioni di Sesto, di Lorenzaga e di S. Foca con relative aderenze.

Anche la moglie di Erfone dispose a favore dell’Abate di Sesto le ville di Ramuscello e di Saletto, sulla destra del Tagliamento, che aveva recato in dote.

Da notare la circostanza ricordata nell’atto stesso che di quella donazione si fecero allora quattro esemplari: uno per il monastero di Sesto, uno per quello di Salto, il terzo per quello di S. Michele e l’ultimo per il monastero di Erfone in Toscana.

A tutti questi possedimenti si aggiunsero altre donazioni fatte in seguito da Carlo Magno, Lotario I, Ludovico II, Carlo II, Berengario I.

Nel ‘899 l’Abbazia venne assalita dagli Ungari che la devastarono incendiando parzialmente la Chiesa, il chiostro e gli edifici annessi.

L’attuale Abbazia fu riedificata nel 960-965 secondo quanto indicatoci da Mons. T. Gerometta*, ad opera di Adolfo II, Abate dal 960 al 965, che provvide a ricostruire gli edifici demoliti, riparare quelli danneggiati, creare un sistema di fortificazioni formate da sette torri di difesa e da fossi di circonvallazione. In questo modo la residenza abbaziale diveniva un castello medioevale fortificato**.

Dopo la ricostruzione l’Abbazia si impegnò nell’edificazione di castelli difensivi come Gruaro, Bando, Fratta, Maniago ed altri, che vennero poi gradatamente infeudati dalle nobili famiglie locali.

L’Imperatore Ottone I con il diploma del 967, donò l’Abbazia con tutti i suoi possedimenti al Patriarcato di Aquileia.

Alla fine del 1110 l’Abbazia si liberò dal dominio del Patriarcato di Aquileia e passò sotto il dominio diretto della S. Sede e dell’Imperatore, i quali, nel XII e XIII secolo le conferirono un particolare splendore.

Il 1100-1200 fu il periodo nel quale si aggiunsero nuove donazioni fra cui territori presso Verona, Senigallia, Ravenna e nuovi privilegi, tanto che assurse a grande centro culturale, civile e religioso.

Si costituì una notevolissima biblioteca andata poi quasi completamente distrutta; ma più importante fu l’opera di bonifica per rendere coltivabili quelle selve paludose.

In quel periodo l’Abbazia assunse la forma di principato civile e uno dei primi posti fra i vassalli del Friuli.

Nel 1420 fu annessa alla Repubblica di Venezia dalla Santa Sede; per circa quattro secoli fu poi eretta in “commenda”, cioè data in custodia a prelati secolari, quasi tutti Cardinali che non vi risiedevano ma lasciavano la cura delle anime al “Vicarius in spiritualibus”.

La serie degli “Abati residenziali” era iniziata nel 775 con l’Abate Albino e terminò con il suo ventisettesimo successore l’Abate Tommaso dé Savioli eletto il 6 agosto 1431, che rimase fino al 1440 quando i Benedettini lasciarono Sesto; iniziò allora il periodo di decadenza.

Nel 1441 cominciò la serie degli Abati “commendatari” ed il primo nominato da Papa Eugenio IV fu il Cardinale Pietro Barbo, nobile veneto e Vescovo di Vicenza che divenne poi Papa col nome di Paolo II*.

Si ebbe così la serie dei quattordici Abati “Commendatari” che si concluse nel 1789 con Giovanni Corner, patrizio veneto.

Nel 1796 il Senato della Repubblica di Venezia dichiarò soppressa la Commenda Abbaziale e mise al pubblico incanto tutti i suoi diritti, le giurisdizioni e gli averi.

Intanto quasi tutto il monastero era andato distrutto.

Da questo momento tramonta una Abbazia che era stata tra le più importanti d’Italia e la prima nel Friuli per la sua influenza nel campo della cultura.

Tutto il suo ricchissimo patrimonio, raccolto e custodito dai Benedettini, andò disperso, sottoposto come fu alle guerre, alle varie spoliazioni, all’incuria.

I documenti che illustrano la storia dell’Abbazia, le sue dotazioni e la serie degli Abati, dal 762, tempo presunto della sua edificazione, alla fine del secolo XIII, sono circa 138.

La maggior parte di questi documenti risale al XIII secolo; una ventina di essi riguardano il periodo delle antiche donazioni anteriori al Mille*.

Tale documentazione è custodita in vari luoghi:

- dell’antico Archivio di Sesto è rimasta quella recuperata da M. Giuseppe Bini, arciprete di Gemona*, che si trova raccolta in un volume attualmente nell’Archivio di Stato di Venezia. Il volume consta di 38 pergamene che riportano notizie risalenti agli anni dal 762 al 1336; nello stesso Archivio si trova anche il fondo “Consultori in Jure”, busta n. 398 ed altre copie a stampa di documenti sestensi che volevano dimostrare all’autorità veneta il diritto dei Vescovi di Udine, sede del Patriarcato di Aquileia e di Concordia di potersi impossessare “in spiritualibus” delle spoglie della soppressa Abbazia di Sesto;

- alcuni manoscritti sono nell’Archivio dei Frari a Venezia, nel fondo “Provveditori sopra Feudi”;

- nella Biblioteca Comunale di Udine esistono 3 Volumi di pergamene ordinate cronologicamente, comprendenti circa 900 anni di storia dal 1705 al 1604;

- nell’Archivio di Stato di Udine, copie e regesti di documenti relativi al Fondo Congregazioni Religiose Soppresse;

- nell’Archivio Capitolare Udinese, collegato alla biblioteca del Seminario, vi è una serie di importantissimi manoscritti del Bini* e del Fontanini*;

- nella Biblioteca Guarneriana di S. Daniele del Friuli vi sono copie di documenti sestensi di mano di Giusto Fontanini, custodite nel fondo Fontanini in “ Varia Mss.” * ,

- nel Museo Archeologico Nazionale di Cividale, dov’è custodito l’Archivio Capitolare della città, si trovano copie manoscritte di documenti sestensi, redatti nella prima metà del 1800 da Michele della Torre Valsanina e raccolte fra le “ Pergamenae ex Archivio Capitulare”, Vol. I e II ; nel II Vol., documenti del XIII secolo.



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Il torrione d’accesso al convento è l’unico rimasto delle torri che si innalzavano dalle mura difensive del complesso; risale alla seconda metà del IX secolo ed è romanico. Venne restaurato nel 1541 dall’Abate Giovanni Grimani, di cui porta gli stemmi, in affresco, sulla facciata*.

Di fronte al torrione d’accesso, al centro dal complesso abbaziale, si erge un’altra torre, risalente alla seconda metà del 1100, che serviva di vedetta per la cittadella di Sesto e per tutta la zona circostante. E’ alta 33 metri e sessanta centimetri: la facciata è appena mossa da elementi architettonici costituiti da lesene centinate. Ebbe un finimento ottagonale che ora non esiste più in quanto distrutto da un fulmine il 3 maggio 1788 e non più ricostruito.

Attualmente si possono osservare una terza torre incorporata nel Palazzo della Cancelleria ed una quarta inserita nel Palazzo della Casa Canonica.



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L’Antica Cancelleria Abbaziale si trova a destra del Campanile. E’ un locale severo nella linea originaria alleggerito da graziose bifore, trifore, quadrifore ed esafore, alcune chiuse nel corso dei secoli, altre nel corso dei lavori di adattamento eseguiti nel 1927, allorché venne adibita a Scuola Materna. Conserva ancora frammenti di affreschi*.

A destra vicino al Campanile, il portone di accesso ad arco a tutto sesto che probabilmente serviva come passaggio ai locali del primitivo monastero*.







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In linea con il portico dell’Abbazia, l’antica residenza degli Abati si affaccia sulla piazzetta; la facciata conserva gli stemmi di cinque Abati commendatari*.

Era completamente decorata ad affresco con vari motivi; infatti nel corso dei restauri del 1969 sono tornate alla luce alcune pitture rappresentanti stemmi e scene cavalleresche* che si trovavano tra vecchie pareti in mattone, la più significativa delle quali è la cosiddetta “ Scena dell’Arciere ” *; ora l’Antica Abbazia è divenuta sede del Palazzo del Comune.

Dal piano terra una porta immetteva nel Refettorio Abbaziale, che oggi conserva tele di pittori del ‘700, resti di affreschi ed un crocefisso ligneo del ‘500 di autore ignoto.

Si possono ancora oggi osservare i resti di una antica decorazione con stemmi di Abati ed affreschi quattrocenteschi.

Questo luogo ora è divenuto Sala delle Udienze.











































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La Chiesa fu costruita insieme al Monastero che era ubicato certamente a nord di essa; dopo un primo rifacimento a seguito della devastazione ungarica, nel 1117 subì di nuovo gravi danni causati da un terremoto.

Lo spazio interno , a mio avviso, è stato suddiviso in tre navate dopo l’intervento del XII secolo. Esso è scandito da colonne e pilastri alternati. Il transetto sopraelevato, ha sullo sfondo tre absidi contrapposte alle tre navate, di cui la centrale, più vasta, termina con un abside semicircolare, sormontata da una volta a catino e conclusa da un arco trionfale. Le navate laterali, minori, più strette ed abbassate verso l’esterno, ospitano due piccoli altari. Le cupole sovrastanti le absidi non sono visibili dall’esterno. Le finestre a sguancio permettono, con l’aumento del passaggio di luce, una migliore illuminazione.

Tra i muri circolari delle absidi ed il muro perimetrale esterno è stato lasciato uno spazio intermedio*.

La parte ovest è stata oggetto nei secoli, di diverse modifiche strutturali. La parte del fianco sud reca le tracce di un grande portale murato.

Alla fine del 1700 gli archi erano certamente a tutto sesto e verso il 1850 vennero aperte quattro cappelle nelle navate laterali ove furono collocati altari barocchi.

Nel 1963 le cappelle furono demolite e gli altari ceduti alla Chiesa dei Padri Carmelitani Scalzi di Laste (Trento).

L’ambiente che precede la Chiesa è di estremo interesse; comprende un vestibolo (lungo ingresso – ambulacro) e un atrio (atrio quadriportico) che come afferma lo Zovatto è quasi un “Unicum”, nel suo genere.

La seconda parte, più larga, a tre navate divise da pilastri, avrebbe formato l’atrio propriamente detto.

Forse doveva servire come stazione di pubbliche penitenze, poiché nei pilastri sono infisse alcune lastre di marmo sporgenti, poste a diverse altezze, che sembra potessero servire come appoggio ai penitenti.

Le più antiche notizie che si riferiscono all’atrio si hanno la prima volta nel 1298 e successivamente nel 1332 “ sub logia dicti ”*.

Il pavimento è in cotto; il soffitto ligneo fu ricostruito ed abbassato verso il 1450 da Pietro Barbo.

L’atrio è illuminato da 5 finestre rettangolari distribuite asimmetricamente; i pilastri e gli archi sono romanici.

Fino al 1700, le due navate laterali sono servite anche da cimitero; diversi monaci ed Abati vi sono sepolti e se ne vedono ancora le pietre tombali; successivamente il camposanto fu realizzato nei pressi dell’Abbazia.

Attualmente ha le funzioni di un piccolo museo, dove sono raccolti alcuni reperti lapidei risalenti a varie epoche ed affreschi distaccati; tra questi una lunetta, rappresentante un “ San Benedetto ” asportata nel 1955 dal portale d’ingresso*, all’atrio che lo Zuliani, citato dalla Furlan ritiene essere di stile riminese.

Sopra il vestibolo e l’atrio si trova un vasto salone, provvisto di finestra solo dal lato meridionale, di cui si ignora l’uso originario.

Attualmente è Sala di Riunioni e Convegni.

La presenza di questo vasto salone superiore rende la costruzione molto simile “ all’èglise-porche ”, di origine carolingia.

Queste strutture furono molto diffuse dall’XI al XIII secolo nell’Europa centrale, soprattutto in Francia e Germania; non se ne conoscono in Italia, se non quella di Sesto, e per spiegarne la presenza in questo luogo bisogna riferirsi ad un vasto ambito di cultura europea, rielaborata dall’ambiente Benedettino nel periodo della rinascenza carolingia.

Il rapporto col tipo di costruzioni “ église-porche ” è confermato dalla presenza, sulla parete di fondo del salone sovrastante l’atrio, di un affresco raffigurante l’Arcangelo Michele al quale, probabilmente, in origine era stata dedicata una piccola cappella. Infatti lo storico Degani riporta una nota di D. M. Manni, nella quale si ricorda che nel monastero di Sesto “ erat quaedam parva ecclesia super quodam solario ” ed aggiunge : “ questa piccola cappella doveva esistere nella parte superiore dell’atrio della Chiesa….”.

L’ubicazione è esatta poiché le Chiese dedicate a S. Michele erano situate in posti elevati e le cappelle o semplicemente nicchie che gli venivano consacrate all’interno delle Chiese stesse, si trovavano ai piani superiori; questa è una regola seguita in ambito francese infatti le nicchie si incontrano al primo piano dei portici e dei narteci.

Quando invece il nartece è sprovvisto di primo piano perché non è previsto sin dall’inizio della costruzione, la Cappella di S. Michele si sviluppa nello spessore del muro, dalla cui superficie sporge un corpo aggettante all’interno della navata ( Cluny, Semur-en-Brionnais, Saulieu).

Per quanto riguarda i restauri subiti dal complesso, il de Carlo e lo Schaffran affermano che durante il primo rifacimento avvenuto dopo l’invasione ungarica, si usarono materiali recuperati dalle antiche costruzioni e per ciò che riguarda il restauro avvenuto nel 1912, curato dall’architetto Giuseppe Torres, non si è stati in grado di poter conoscere i documenti relativi.

A mio avviso, osservando “ in loco ” i punti di restauro ed attraverso notizie fornitemi dall’attuale Abate, posso sommariamente indicare i punti più visibilmente ristrutturati: consolidamento di alcune strutture della Chiesa, dell’atrio e del vestibolo; ripristino della quadrifora e della pentafora dell’atrio; demolizione dei soffitti piani delle navate e del tiburio per mettere in luce le vecchie travature a vista, che successivamente furono rinnovate e decorate secondo le tracce rinvenute nelle vecchie; sistemazione dei tetti; ricostruzione della cripta; rifacimento del piano del sovrastante presbiterio e delle gradinate laterali d’accesso; ripristino delle colonne rotonde tra pilastro e pilastro delle navate che precedentemente sembra fossero rivestite di marmo, dando così luogo a pilastri; riedificazione degli archi a tutto sesto.





































Al di sotto dell’altare maggiore si trova la Cripta che sebbene abbia subito diversi restauri dovrebbe appartenere al periodo successivo l’invasione ungara.

Vi si accede attraverso due aperture ad arco romano a destra ed a sinistra del pontile. Lungo la balaustra della scala si notano ancora le sagome degli antichi scalini. Anch’essa ha tre absidi circolari di dimensioni ridotte che corrispondono a quelle della Chiesa soprastante.

Tre finestre sopraelevate ad arco a tutto sesto, la illuminano discretamente.

Quattro colonne sostengono la volta a crociera; i capitelli, di cui solo alcuni sono antichi, hanno la forma cubica romanica e quella ad imbuto del tardo periodo ravennate studiati da Furlan.

Lungo le pareti si trovano sedili di pietra. Dalla pianta, dalla lavorazione e disposizione delle pietre, dai sedili, il cui margine è decorato da una dentellatura, si potrebbe far risalire la Cripta al periodo preromanico del IX secolo.

Dall’abside sinistra della Cripta un arco a tutto sesto immetteva, a mo avviso, in una cappella esterna o al cimitero.

La Cripta, ampia quanto il presbiterio sovrastante, è stata completamente ricostruita sulle tracce di quella primitiva. Il visitatore apostolico de Nores, Vescovo Parentino, ha lasciato una descrizione dell’infrastruttura che fu eliminata nel 1798 rialzando il pavimento di circa un metro e facendolo correre orizzontalmente dall’ingresso della Chiesa all’abside.

E’ stata ripristinata nel 1907, ad opera di Don Luigi Rosso, Vicario foraneo, impiegando gli elementi architettonici rinvenuti nello scavo.

Al centro della Cripta si conserva il “ Sarcofago di S. Anastasia ”, con figurazioni sulla fronte e sui lati*, opera che combina motivi della tradizione romano – ravennate degli archetti abbinati a pilastrini e colonnine tortili a motivi di riempimento nordici nelle rosette, negli alberelli, nei cerchietti con forellini, tutti con intaglio approfondito per ottenere un effetto coloristico vibrante; un grande cerchio racchiude una croce latina, riempita a treccia. Lo Shaffran e lo Zovatto lo attribuiscono con sicurezza all’VIII secolo.

Nell’abside di destra si vede una “ Pietà “, scolpita in pietra calcarea, policroma, probabilmente del XIV secolo.

Nell’abside di sinistra una “ Annunciazione ” in marmo, tipico esempio di bassorilievo gotico.



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La Chiesa era meta di pellegrinaggi poiché la Bolla del 16 aprile 1336 del Patriarca Bertrando di Aquileia concedeva indulgenze speciali a chi la visitasse per venerare le reliquie di S. Anastasia, matrona romana martirizzata nel 304, nel corso delle persecuzioni di Diocleziano, al tempo di Papa Marcellino e del Vescovo S. Cromazio. Il complesso fu, probabilmente, anche per questo motivo uno dei più importanti in quell’area. Questo è testimoniato dal vasto ciclo di affreschi che in esso si trova.

Una scala, costruita con vecchi blocchi di marmo, ornata da una ringhiera moderna e realizzata sulla destra dell’ingresso alla Chiesa della piazza antistante, conduce ad un salone formato da un unico locale rettangolare di cui si è già parlato nella parte dedicata all’architettura.

Nella parete di fondo si notano alcuni frammenti di un affresco studiato dalla Cozzi rappresentante l’Arcangelo Michele, di cui sono visibili alcuni tratti del volto. Nell’ingresso del salone, sul lato destro, alcuni affreschi rappresentanti scene cavalleresche sono stati portati alla luce nel restauro del 1970; dal punto di vista iconografico, hanno stretti rapporti, a mio avviso, con gli affreschi del Battistero della Cattedrale di Concordia Sagittaria,( XII secolo ) Portogruaro, con quelli della Cripta del Duomo di Aquileia ( fine del XII secolo ) e con quelli del Sacello romanico dedicato alla Vergine dell’Abbazia di Summaga, sede anch’essa di un monastero benedettino, il cui accento romanico consente di datarli all’ XI – XII secolo circa.

La facciata e le lunette d’ingresso alla Chiesa sono ornate da affreschi del XIII secolo - purtroppo in degrado - rappresentanti “S. Benedetto ed il diavolo” e “ L’Arcangelo Gabriele ”; sul lato sinistro del portale, un gruppo con “ la Madonna, S. Pietro e S. Giovanni Battista ”; sui pilastri del quadriportico, affreschi con la rappresentazione di “ S. Elena, S. Cristoforo e la Madonna ”, del XII secolo.

Dalla piazza antistante la Chiesa, si accede al vestibolo; vi si notano due grandi affreschi che rappresentano il “Paradiso”, ancora parzialmente visibile e l’ ”Inferno”, quasi del tutto perduto e di cui è rimasto solo il contorno delle ali di pipistrello di un grande demonio.

A fianco del Paradiso è rappresentata una scena raffigurante una Madonna in trono, fiancheggiata da due Santi, sotto uno dei quali è inginocchiato, in atto di adorazione, un membro della Famiglia Grimani.

Questo affresco potrebbe appartenere alla scuola quattrocentesca veneziana.

Sulle travi dell’impalcatura sono dipinti gli stemmi di alcuni Abati del XV e XVI secolo.

Quello che appare più di frequente è quello di Pietro Barbo, assurto alla carica nel 1441.

Oltre a questi affreschi, doveva esserci un’altra rappresentazione della quale rimane soltanto l’immagine dell’Arcangelo Michele.

Attraversato il vestibolo, si entra nell’atrio, precedentemente descritto, nel quale, sulla parete di fondo a destra, è dipinto l’affresco rappresentante l’ “Incontro dei tre vivi e dei tre morti” che dai resti di una iscrizione sottostante “Hoc opus…..AN…….MCC (spazio di quattro cifre) …..Di….XII….I”, viene datata dalla Furlan al 1350 ed accostata alla cultura di Vitale che operò ad Udine nel 1348.

Lo Schaffran, invece, la ritiene una tarda composizione giottesca del 1360 circa.

A sinistra dell’ingresso che porta all’interno della Chiesa, due figure di Santi “Agostino ed Ambrogio”, opera scadente del Rinascimento.

Dalla parte opposta, sulla parete destra, un affresco rappresentante “Cristo e S. Tommaso”, che si presume di arte veneziana del 1510 circa.

Gli affreschi sui pilastri ci rimandano alla pittura friulano – veneta medioevale.

Le pareti del vestibolo e dell’atrio erano tutte affrescate, come ci tramanda l’antica trascrizione fattane dal Cortinovis nel 1801 .

Anche l’interno della Chiesa doveva essere completamente affrescato ma ha subito gravissimi danni.

La vastità di questo ciclo di pitture richiese certamente l’opera di più maestranze, che lavoravano nello stesso periodo influenzandosi a vicenda e delle quali, attraverso l’esame di alcuni particolari stilistici e soluzioni iconografiche, si cercherà di determinare la provenienza e la diversa estrazione culturale, tenendo tuttavia conto che questo esame è compiuto su un’opera parziale ed in degrado.

In tempi precedenti, alcuni studiosi hanno spesso tentato di ricostruire, almeno parzialmente, la storia di queste opere di affresco e dei loro esecutori; ma poiché nulla ha potuto essere suffragato da documentazioni valide, sono state formulate solo delle ipotesi. Alcuni le ritenevano di scuola riminese, altri romagnola, altri ancora opera di pittori padovani seguaci di Giotto.

Dopo un primo esame, che verrà approfondito nel corso di questo lavoro, si può affermare che gli artisti, pur provenienti da culture diverse, furono influenzati dalle innovazioni che si verificarono alla fine del Duecento e nei primi del Trecento; tra queste assumono particolare rilievo quelle apportate dall’arte giottesca.

Si può immediatamente parlare della più importante, riguardante la scoperta dei valori spaziali con la creazione di finte inquadrature architettoniche realizzate da più punti di vista e sviluppate attraverso la rappresentazione di altane, verande, vani sovrapposti, edicole, cornici, rilievi policromati, finte architetture e mensole, zoccoli dei transetti, nelle quali si muovono immagini che danno l’illusione di entrare nello spazio reale dell’architettura circostante.

Questo cantiere, tuttavia, così vasto e complesso, dette vita ad una decorazione il cui concetto di fondo è senz’altro unitario.

Il primo restauro moderno fu affidato all’architetto Giuseppe Torres, nel 1912, che per primo scoprì nel catino dell’abside l’affresco rappresentante l’ “Incoronazione della Vergine”, circondata da angeli oranti.

Nella parte intermedia, sotto l’incoronazione, il riquadro di sinistra offre la rappresentazione del “Sogno dei Pastori”, e quello di destra “La nascita di Gesù”.

Nel sottoquadro inferiore del catino dell’abside, finte nicchie racchiudono cinque “Santi” di proporzioni naturali e sei busti di “Profeti” in quadriboli, circondati da decorazioni geometriche; sono rimasti solo tre dei cinque santi*.

Altre scoperte furono fatte successivamente, mettendo in luce tutto quanto restava dell’antico complesso di affreschi dedicato alla storia dei patroni; in particolare:

- la Vergine, i SS. Pietro e Giovanni Battista nella parte presbiterale;

- nella parete sud del tiburio, la “Consegna della cintola a Tommaso” e il “Transito della Vergine”;

- nel braccio destro del Transetto, “Storie di S. Pietro” così articolate:

. parete ovest: “La guarigione dello storpio” e “La Resurrazione della vedova Tabita” (illeggibili);

. parete est: “Il Santo che va incontro a Cristo sulle acque” (illeggibile);

. parete sud, “Consegna delle chiavi a S. Pietro” (sullo sfondo di edicole e nicchie, Cristo porge al Santo le chiavi del potere spirituale e l’Apostolo, attraverso il Pastorale, le trasmette a Lino);

. sulla stessa parete le Storie si concludono con la “Condanna dei SS: Pietro e Paolo” (illeggibile) ed il “Martirio di S. Pietro” (parzialmente leggibile);

. in questa stessa parete, dalla parte destra, l’ “Albero Mistico” o “Lignum Vitae”;

- nella parete nord del Tiburio e nel braccio sinistro del Transetto, le Storie di S. Giovanni Evangelista, tra le quali l’unica superstite è l’ “Assunzione di S. Giovanni”;

- nella parete ovest del Tiburio e nel quadrilungo, a destra e a sinistra, le “Storie di S. Benedetto” di cui restano il “Santo che istruisce i monaci” ed il “Santo che guarisce lo storpio”, nonché alcuni frammenti;

- nei pilastri e negli intradossi degli archi del Presbiterio, figure e busti di “Santi e Padri della Chiesa” entro quadrilobi e riquadri; - negli archivolti gli “Evangelisti”, dei quali ne rimangono due, parzialmente visibili;

- sopra l’attuale ingresso della Chiesa è un “Salvator Mundi”, quasi completamente distrutto, ed al quale non si può attribuire alcuna datazione;

- sul terzo pilastro a destra della navata centrale sono rappresentati un uomo ed una donna, che dovevano essere Ottone di Canossa e sua moglie Hagalberta, deduzione tratta dall’iscrizione “DA DIGARDA UXOR OTTONIS” che letta dal Cotinovis e riportata dallo Schaffran, si riferisce ad una nota del Pittiano, notaio a S. Daniele del Friuli, tra il 1570 ed il 1590;

- nella navata laterale sinistra:

. un affresco diviso in tre parti, delle quali la centrale è andata distrutta, che rappresenta una “serie di donne inginocchiare” a sinistra ed “una processione” a destra;

. un altro affresco con “due Santi”, di stile veneziano cosidetto di terraferma del sec. XVI.

Nei punti in cui gli affreschi sono scomparsi, sono stati sostituiti da rappresentazioni di finti marmi tuttora visibili.

Dopo aver brevemente illustrato quanto rimasto di questa vasta opera, si cercherà di analizzare, almeno nelle parti ancora leggibili, gli elementi che definiscono gli affreschi come opera di maestranze giottesche – padovane.

Da una prima notizia, non suffragata da documentazione alcuna, il de Carlo afferma che dopo il lavoro eseguito a Padova nella Cappella Scrovegni, Giotto era stato chiamato a decorare una piccola Cappella del Castello di Collalto, vicinissimo a Sesto, notizia che è stata ripetuta dal Degani.

Purtroppo, nessuna ricerca in tal senso ha dato esiti positivi, e pertanto non può essere determinante per l’attribuzione di questo ciclo a Giotto.

Secondo quanto afferma Zuliani, questo ciclo di affreschi è molto importante per la diffusione del giottismo nell’Italia nord- orientale e perciò si dovrebbe esaminarlo nella sua globalità.

Egli afferma che quest’opera è stata eseguita nell’arco di un lungo periodo, che va dall’XI al XVI secolo e da due diversi maestri.

Il “Maestro del Lignum Vitae”, potrebbe essere l’autore dei superstiti “Episodi di S. Benedetto” nel quadrilungo: “S. Benedetto che istruisce i monaci”, “S. Benedetto che guarisce lo storpio”, la “Decorazione absidale”; il “Martirio di S. Pietro”, l’ “Albero mistico”; l’artista, nella sua opera, ha voluto esprimere l’esigenza, pur nella semplicità delle architetture squadrate e ben delineate, di organizzare sistematicamente lo spazio, anche nella profusione descrittiva di particolari architettonici.

Questo tipo di metrica spaziale, pur semplificata, riconduce alla bottega di Giotto ed al periodo dei lavori nella Cappella Scrovegni e nella Cappella Peruzzi in S. Croce a Firenze, così come gli stessi temi spaziali si ricollegano alla Cappella della Maddalena ed alle prime “Storie di Cristo” del transetto della Basilica Inferiore di Assisi.

L’altro Maestro, autore degli “Episodi della vita di S. Pietro e di S. Giovanni” ormai quasi illeggibili, appare nella sua opera più concitato e drammatico, esprimendo il sentimento attraverso una plasticità impetuosa, sottolineata da brevi contrasti luministici e tensioni spaziali elaborate. Questo secondo artista tradisce l’influenza di pittori romagnoli, frammista alla cultura giottesca.

Sempre da quanto affermato dallo Zuliani, la formazione di questi due maestri potrebbe essere avvenuta sui lavori eseguiti a Padova ed in S. Croce e se ne potrebbe inquadrare l’attività a Sesto, durante la reggenza dell’Abate Lodovico della Frattina (1324-1336).

Per quanto concerne le figure dei “Santi” in grandezza naturale, i “Busti” nei quadrilobi e nei riquadri, le fasce vegetali delle ghiere, le tarsie cosmatesche, si nota una mano più alta, soprattutto per l’espressione vigorosa dei volti e dei contrasti chiaroscurali che sottolineano la gravità e l’intensità degli atteggiamenti, ma soprattutto nei tratti fisionomici in particolare quelli dei “Santi” che, come cita Zuliani, sono da accostare, al “S. Stefano” di Giotto, nel Museo Horne a Firenze.

Anche dallo Zeri questo ciclo fu definito un fatto “giottesco – padovano”.

Altri studiosi hanno parlato di questi affreschi, tra questi I. Furlan e G. B. Peressuti.

























Come detto in premessa, alla fine del ‘200 Giotto introdusse nella pittura grandi innovazioni, che risultano da una analisi critica degli affreschi giunti fino a noi.

Nel catino dell’abside è dipinta l’ “Incoronazione della Vergine”, un tema che ebbe grande sviluppo iconografico dal XIII secolo in poi e la raffigurazione di Sesto, a mio avviso, potrebbe risalire alla prima metà del Trecento.

Si nota subito la tecnica usata che ricorda quella giottesca; il contorno delle figure è inciso a punta e l’aureola è scolpita, raggiata ed a rilievo, seguendo la tecnica descritta dal Cennini che, usata per la prima volta nella Basilica Superiore di Assisi, si diffuse poi in tutta l’Italia. Fino alla fine del Duecento l’aureola era semplicemente dipinta ad affresco sulla parete, anche se vi erano già stati esempi di quel tipo nelle pitture su tavola di artisti oltremontani.

I colori fondamentali sono stati ottenuti dall’impasto di semplici terre che producono effetti reali. Il concetto di spazialità è particolarmente avvertibile nell’architettura del trono che con base geometrica allargata e leggermente fissa, tende a seguire l’impianto semicircolare del catino absidale le cui estremità si restringono verso l’alto terminando a cuspide.

I gradini del trono rimandano a quello dell’abside scrovegna, sulla quale è posta una tavola dipinta con l’ “Eterno che affida a Gabriele la missione”, ed ai troni dei “Dottori della Chiesa” nelle vele della basilica Superiore di Assisi.

Le decorazioni a tarsie erano inizialmente usate solo per decorare le incorniciature degli affreschi; successivamente le maestranze giottesche iniziarono ad usarle per decorare le architetture e le suppellettili delle scene affrescate.

Gli angeli che circondano il trono sono disposti in modo tale da suggerire lo spazio in cui si muovono liberi di parlare, suonare, cantare, mentre quelli in alto sostengono l’ampio manto decorato che fa da corona e sfondo al trono stesso.

I panneggi dei personaggi sono ampi, le stoffe sembrano assumere peso fisico, le pieghe sottolineano le movenze delle figure corporee, solide, con un’impostazione monumentale, quasi scultorea.

I volti degli angeli, alcuni visti di fronte, altri in scorcio, come anche la figura della Madonna che ha le mani incrociate sul petto, ricordano la singolare innovazione di Giotto nel raffigurare il personaggio di profilo e l’accorgimento da lui adottato per le aureole, non più a cerchio pieno, ma ovalizzate, scorciate.

Anche Zovatto afferma che questa decorazione si può ricollegare al linguaggio giottesco per gli elementi e gli schemi iconografici, desunti da narrazioni evangeliche apocrife, che si ritrovano negli affreschi di Giotto a Padova; lo stesso Toesca afferma: “…..essere più direttamente ispirati agli affreschi di Giotto a Padova….come quanto resta della Storia di S. Benedetto…..”.

Nel quadrilungo si trovano gli affreschi che si riferiscono alle storie di S. Benedetto. Inizialmente dovevano essere dodici affermano Zovatto, la Zulian ed altri studiosi già citati, ma ne sono rimasti solo due ancora leggibili: uno nella parete destra e l’altro nella parete sinistra. Ritengo che quello della parete sinistra possa riferirsi al “Santo che guarisce lo storpio”, a differenza di quanto afferma Zuliani che lo definisce “S. Benedetto che conforta i poveri”.

Il personaggio che sembra inginocchiato al di fuori dell’edicola è infatti sorretto, sotto le ascelle, da un uomo sul cui volto è descritta un’espressione interrogativa di speranza; il vecchio canuto alla loro sinistra, ha il viso assorto, attento, in muta preghiera; la sua testa, priva di collo, è quasi completamente assorbita dalle spalle reclinate; gli occhi volti a terra, appare quasi dilatato ed oppresso dal peso dei suoi pensieri.

Anche sugli altri volti si legge un’espressione di attesa, come nei due personaggi dell’uomo e della donna, i cui sguardi si incrociano in un silenzio colmo di aspettative ed il cui reverenziale timore è espresso dalla mano dell’uomo che si appoggia all’avambraccio della donna quasi cercando sostegno; questa, a sua volta, rivolge la sua verso il Santo.

Tutto è sovrastato dalla figura imponente, ascetica, vibrante del Santo, il cui volto esprime saggezza, bontà, dolcezza ma nello stesso tempo severità e determinazione riassunte nello sguardo intenso e nel gesto della mano protesa verso l’infelice.

Le figure del Santo e degli altri padri, racchiusi in una costruzione architettonica, sembrano emergere dal fondo, mentre aldilà del timpano compaiono il campanile ed il resto della costruzione, che potrebbe essere un’altra torre in riferimento a quelle dell’Abbazia, in quasi perfetto rapporto.

Nella parte destra dell’affresco appaiono i piani di fondo, dati dagli alberi e dalle loro fronde e tutto determina la tridimensionalità della scena con estremo ordine e precisione.

I panneggi dei personaggi, ampi, abbondanti di pieghe, ricadono con scioltezza e morbidezza, sottolineando ogni movimento e lasciando indovinare le forme dei corpi.

I colori, sebbene in gran parte deteriorati, hanno tonalità pure, come quelli usati da Giotto.

L’atteggiamento, pur mistico, è essenzialmente umano e traspare da esso incertezza, paura, profondità, attesa, speranza, tipici dell’opera di Giotto, che seppe tradurre i sentimenti e le emozioni umane in puro segno e colore: personaggi reali, colori reali, emozioni reali.

I visi della donna e del fanciullo o fanciulla, hanno il contorno ovale e pieno mentre quelli degli uomini hanno lineamenti scavati ed incisivi, forti zigomi amplificati da ombreggiature, nasi trattati con segno deciso e sottolineato lateralmente da profonde ombre per mettere in risalto lo zigomo e scavare la guancia; i capelli sono folti e gonfi, la barba riccia e spumosa. Questi particolari iconografici si riferiscono all’arte giottesca, come pure l’abbigliamento, discreto, essenziale, tipico dell’epoca: vesti corte sotto il ginocchio piedi ricoperti di semplici calzari, che vengono arrotolati appena sopra il polpaccio come nei personaggi Scrovegni.

I capelli della donna sono acconciati semplicemente e senza velo, come era nel costume di quel periodo.

L’abito del fanciullo, stretto da un cordone che lo cinge appena sotto le ascelle, potrebbe far pensare ad una fanciulla, perché quella era la foggia degli abiti delle donne in quel tempo, e lo ritroviamo negli affreschi padovani.

Nella scena del quadrilungo di destra si osserva “S. Benedetto che istruisce i monaci”.

Alcuni personaggi sono differenziati tra loro per importanza, data dagli abiti, e dalla foggia della barba e dei capelli: i frati giovani, come era costume del ‘300, hanno il viso rasato e la tonsura, descritta con minuzia di particolari, con attenzione ed accuratezza, come nei giovani francescani della Cappella Bardi a Firenze, mentre gli anziani hanno la barba, i capelli folti e ben acconciati.

Da notare, come precedentemente asserito per l’ affresco precedente, la costruzione dell’aula, la cui profondità è determinata dalla suddivisione delle volte per mezzo di archetti a sesto acuto ed archi a tutto sesto, posti con perfetta simmetria, intesi a dare maggior risalto, profondità e spaziosità all’aula.

Le decorazioni dell’ingresso dell’aula nella quale si trovano i monaci sono in stile cosmatesco e sono ripetute sulla fronte dei piani digradanti all’interno; sembrano culminare con la punta dell’arco a tutto sesto che si vede sullo sfondo, sopra la testa del frate emergente, quasi a creare, illusoriamente, un asse sul quale ruota e si forma la scena dando la sensazione di movimento e vibrazione.

La figura del Santo è stata posta al di fuori dell’aula, in primo piano per dare maggiore risalto alla sua immagine.

Tutta la scena sembra essere illuminata da un solo punto di luce.

Un altro particolare colpisce nei “Funebri di S. Benedetto” sulla parete ovest del tiburio e ricorda l’iconografia giottesca: è il lampadario sospeso alla volta, che per la forma ed il colore può essere messo in relazione a quelli della Cappella Scrovegni, nei due coretti dipinti sulla parete di fondo verso l’altare, ai lati dell’arco trionfale.

Poiché l’interesse di questo lavoro è volto a determinare in quale entità l’influenza giottesca modificò la pittura di quel periodo e quali luoghi la subirono in particolare, si ritiene necessario, oltre quanto è stato già detto, aggiungere altre particolarità che sottolineano con maggiore evidenza il nuovo modo con cui Giotto riusciva a descrivere emozioni, luoghi e pagine dei Vangeli con semplicità, in modo da essere compreso da un pubblico eterogeneo, composto da persone di diversa estrazione sociale e culturale.

Il ciclo pittorico della Chiesa comprende, oltre gli episodi che si svolgono lungo le pareti del quadrilungo, del tiburio e dell’abside, anche le ornamentazioni dei sottarchi, decorati a medaglioni, contornati da cornici e da sagome a finti marmi, in cui sono dipinte le teste dei Santi Padri della Chiesa e figurazioni minori in formelle e quadrilobi.

Le cornici cosmatesche racchiudono le storie e le separano tra loro, larghe ma non in rilievo, rendendo più evidenti le scene e dando un’articolazione architettonica alle pareti stesse della Chiesa; un illusionismo spaziale attraverso il quale sembra vedersi l’apertura di un ambiente al di là della parete, che costituisce una delle innovazioni della concezione dello spazio con la quale Giotto anticipa le soluzioni prospettiche quattrocentesche.

Nella resa pittorica c’è densità e morbidezza; il modellato rende tutto con ampia volumetria. Le figure rimandano, nei gesti e nell’equilibrio alla scultura antica. Il tono della narrazione è alto e solenne e le figure più importanti, pur essendo maestose, sono affabili e serene: “S. Benedetto che istruisce i monaci”.

Oltre ai personaggi principali, le figure di contorno hanno una loro espressività, caratterizzata da tratti fisionomici e rendono ciascuna la misura della propria condizione come i personaggi della scena di “S. Benedetto che guarisce lo storpio”.

Non più una rappresentanza ieratica e antinaturalistica come quella voluta dall’arte medioevale, ma immagini di scorcio, di profilo, coinvolte in atteggiamenti di lavoro quotidiano, domestico, addolciti da effetti di luce ed ombre che rendono nitide e vibranti le strutture e ricordano l’attenzione di Giotto agli effetti di luce ed agli elementi naturalistici che componevano la sua visione del mondo.





Come già detto, non esiste una documentazione probante tale da consentire un’attribuzione e quindi una possibile datazione del ciclo di affreschi esaminato.

L’analisi stilistica e quella iconografica hanno tuttavia permesso di individuare molti e consistenti elementi che inducono a correlare il ciclo con i lavori eseguiti a Padova ed a Firenze da seguaci di Giotto ed a collocarlo, quindi, nella prima metà del 1300; tesi, questa, sostenuta oltre che da tutti gli studiosi citati anche dallo Zuliani, il quale ritiene che il Maestro delle Storie di S. Benedetto potrebbe essere un aiuto di Giotto che, formatosi nel cantiere di Assisi, avrebbe seguito il maestro nel secondo soggiorno padovano.

















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ABBREVIAZIONI



Mem Stor For : Memorie Storiche Forogiuliesi

N Arch V : Nuovo Archivio Veneto

Boll Ud : Bollettino di udine

Arch V : Archivio Veneto

Ill It : Illustrazione Italiana

Boull Mon : Boulletin Monumental

RIASA : Rivista del R. Istituto di Archeologia e Storia dell’Arte

Boll Soc Fil Friul : Bollettino della Società Filologica Friuliana

E I : Enciclopedia Italiana



* Foto dell’autrice











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T. GEROMETTA, L’Abbazia Benedettina di S. Maria in Silvys, Portogruaro, 1957

F. ZERI, Una Deposizione di scuola riminese, in “Paragone”, n. 19, 1958

I. FURLAN, Capitelli altomedioevali della Abbazia di Sesto al Reghena, in “Il Noncello”, 10, 1958

I. FURLAN, Strutture e significato dell’atrio dell’Abbazia di Sesto, in “Mem Stor For”, 44, 1960-61

R. SALVINI, L’Arte del Medioevo. Il Duecento e Trecento, 1965

P. L. ZOVATTO, Affreschi absidali a Sesto al Reghena, in “Friuli”, 1967

I. FURLAN, L’Abbazia di Sesto al Reghena, Milano 1968

P. L. ZOVATTO, I mille e più anni dell’Abbazia di Sesto al Reghena, in “Il Friuli”, 6, 1969

F. ZULIANI, Diffusione del giottismo nelle Venezie e nel Friuli: gli affreschi dell’Abbazia di Sesto al Reghena, in “Arte Veneta”, 1970

P. I. ZOVATTO, Saggio bibliografico sull’Abbazia di Sesto al Reghena, in “Mem Stor For”, LII, 1972

C. GABERSCEK, L’urna di S. Anastasia di Sesto al Reghena e la rinascenza liutprandea, in “Scritti storici in memoria di P. L. Zovatto”, 1972

C. FURLAN, Precisazioni sulle vicende critiche del ciclo giottesco nella Badia di Sesto, in “Il Noncello”, 1972

F. COZZI, Un affresco raffigurante l’Arcangelo Michele, in “Arte Veneta”, XXIX, 1975

R. TORRE, L’Abbazia di Sesto in Sylvis dalle origini alla fine del 1200, Udine 1979

Abate Mons. P. FURLANIS, 1985

































ILLUSTRAZIONI



Sigillo abbaziale : la Vergine attorniata da sette torri; sotto l’Abate

Abbazia di Sesto : (Disegno tratto da “Castelli, Terre e Città del Friuli, nel 1600”, M. S. Vincenzo JOPPI, 208, p. 20, conservato presso la Biblioteca Comunale di Udine)

Luoghi e zona donati il 29 aprile 927, dall’Imperatore OTTONE I al Patriarcato di Aquileia

Stemma del Cardinale Pietro Barbo, nato a Venezia nel 1417, nipote di Papa Eugenio IV, poi Papa Paolo II (1464-1471)

Torre vedetta e portone d’accesso

Antica cancelleria abbaziale : veduta d’insieme

Antica cancelleria abbaziale : particolari

Atrio : lunetta distaccata con “S. Benedetto”

Cripta : pianta

Cripta : veduta d’insieme

Cripta . sarcofago di S. Anastasia

Cripta : Annunciazione

Chiesa : ingresso

Salone sovrastante vestibolo ed atrio : ingresso parte destra con “Scene cavalleresche”

Chiesa : catino absidale con “Incoronazione della Vergine”

Chiesa : transetto (parete sud) con “La consegna delle chiavi a S. Pietro”

Chiesa : presbiterio con “Santi e Padri della Chiesa”

Chiesa : archivolti con “Evangelisti”

Chiesa : quadrilungo con “San Benedetto che guarisce lo storpio”.































































































































































































































































































L’ABBAZIA DI SANTA MARIA IN SYLVIS - SESTO AL REGHENA


Maria Luisa de Gasperis





Lo studio dell’Abbazia di Santa Maria in Sylvis a Sesto al Reghena (Pordenone), è stato realizzato allo scopo di individuare ed evidenziare i particolari stilistici ed iconografici che rimandano a Giotto ed alla sua scuola, sottolineandone l’importanza assunta nella diffusione del giottismo nelle Venezie e nel Friuli.

Alla fine del ‘200, Giotto introdusse nella pittura delle grandi innovazioni che riguardarono l’illusionismo architettonico, la metrica spaziale, la semplificazione e definizione delle architetture, la composizione attuata attraverso indicazioni di spazi tridimensionali quali finti zoccoli, decorazioni marmoree con inserite figurazioni, fasce decorative; introdusse inoltre la rappresentazione fedele della storia e del costume attraverso l’aspetto dimesso e realistico di alcune figure e l’attenzione per la realtà oggettuale circostante: dalla trasposizione del quotidiano al solenne, dal normale al sublime, dalla rappresentazione garbata e di straordinaria finezza alla fisicità corporea nelle figure; innovazioni che emergeranno con evidenza dallo studio degli affreschi.

Premessi alcuni brevi cenni storici, necessari per seguire almeno per sommi capi le vicende dell’Abbazia, lo studio sarà condotto attraverso la descrizione, ancorché sommaria, dell’architettura del complesso abbaziale ed il successivo esame più approfondito degli affreschi; seguirà da ultimo un esame critico di questi, tendente a porne in risalto la peculiarità da confrontare con quelle giottesche citate.



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Soltanto dalla prima metà del ‘700 si può cominciare a tracciare, attraverso l’analisi di documentazioni, la storia di questa Abbazia, della quale purtroppo non esistono documenti che possano comprovare la prima formazione.

Mons. Pietro Furlanis, Abate del complesso che nel 1987 ha compiuto una ricerca in tal senso, ritiene che la Chiesa primitiva venisse costruita fra il 730 ed il 735 da alcuni monaci benedettini, che si stabilirono a Sesto al Reghena nella prima metà dell’ VIII secolo.

Il primo documento pervenuto, peraltro in copia trascritta, è l’Atto Nonantoliano*, del 3 maggio 762, stilato a Nonantola presso Modena; con tale atto, i fratelli longobardi Erfone, Marco ed Anto, figli di Pietro duca del Friuli e di Piltrude, donarono ai Benedettini che vivevano nei monasteri di Sesto e di Salto presso Cividale tutte le loro sostanze e le vaste proprietà che possedevano nel Friuli, fra Tagliamento e Livenza, e specificamente le tre corti e giurisdizioni di Sesto, di Lorenzaga e di S. Foca con relative aderenze.

Anche la moglie di Erfone dispose a favore dell’Abate di Sesto le ville di Ramuscello e di Saletto, sulla destra del Tagliamento, che aveva recato in dote.

Da notare la circostanza ricordata nell’atto stesso che di quella donazione si fecero allora quattro esemplari: uno per il monastero di Sesto, uno per quello di Salto, il terzo per quello di S. Michele e l’ultimo per il monastero di Erfone in Toscana.

A tutti questi possedimenti si aggiunsero altre donazioni fatte in seguito da Carlo Magno, Lotario I, Ludovico II, Carlo II, Berengario I.

Nel ‘899 l’Abbazia venne assalita dagli Ungari che la devastarono incendiando parzialmente la Chiesa, il chiostro e gli edifici annessi.

L’attuale Abbazia fu riedificata nel 960-965 secondo quanto indicatoci da Mons. T. Gerometta*, ad opera di Adolfo II, Abate dal 960 al 965, che provvide a ricostruire gli edifici demoliti, riparare quelli danneggiati, creare un sistema di fortificazioni formate da sette torri di difesa e da fossi di circonvallazione. In questo modo la residenza abbaziale diveniva un castello medioevale fortificato**.

Dopo la ricostruzione l’Abbazia si impegnò nell’edificazione di castelli difensivi come Gruaro, Bando, Fratta, Maniago ed altri, che vennero poi gradatamente infeudati dalle nobili famiglie locali.

L’Imperatore Ottone I con il diploma del 967, donò l’Abbazia con tutti i suoi possedimenti al Patriarcato di Aquileia.

Alla fine del 1110 l’Abbazia si liberò dal dominio del Patriarcato di Aquileia e passò sotto il dominio diretto della S. Sede e dell’Imperatore, i quali, nel XII e XIII secolo le conferirono un particolare splendore.

Il 1100-1200 fu il periodo nel quale si aggiunsero nuove donazioni fra cui territori presso Verona, Senigallia, Ravenna e nuovi privilegi, tanto che assurse a grande centro culturale, civile e religioso.

Si costituì una notevolissima biblioteca andata poi quasi completamente distrutta; ma più importante fu l’opera di bonifica per rendere coltivabili quelle selve paludose.

In quel periodo l’Abbazia assunse la forma di principato civile e uno dei primi posti fra i vassalli del Friuli.

Nel 1420 fu annessa alla Repubblica di Venezia dalla Santa Sede; per circa quattro secoli fu poi eretta in “commenda”, cioè data in custodia a prelati secolari, quasi tutti Cardinali che non vi risiedevano ma lasciavano la cura delle anime al “Vicarius in spiritualibus”.

La serie degli “Abati residenziali” era iniziata nel 775 con l’Abate Albino e terminò con il suo ventisettesimo successore l’Abate Tommaso dé Savioli eletto il 6 agosto 1431, che rimase fino al 1440 quando i Benedettini lasciarono Sesto; iniziò allora il periodo di decadenza.

Nel 1441 cominciò la serie degli Abati “commendatari” ed il primo nominato da Papa Eugenio IV fu il Cardinale Pietro Barbo, nobile veneto e Vescovo di Vicenza che divenne poi Papa col nome di Paolo II*.

Si ebbe così la serie dei quattordici Abati “Commendatari” che si concluse nel 1789 con Giovanni Corner, patrizio veneto.

Nel 1796 il Senato della Repubblica di Venezia dichiarò soppressa la Commenda Abbaziale e mise al pubblico incanto tutti i suoi diritti, le giurisdizioni e gli averi.

Intanto quasi tutto il monastero era andato distrutto.

Da questo momento tramonta una Abbazia che era stata tra le più importanti d’Italia e la prima nel Friuli per la sua influenza nel campo della cultura.

Tutto il suo ricchissimo patrimonio, raccolto e custodito dai Benedettini, andò disperso, sottoposto come fu alle guerre, alle varie spoliazioni, all’incuria.

I documenti che illustrano la storia dell’Abbazia, le sue dotazioni e la serie degli Abati, dal 762, tempo presunto della sua edificazione, alla fine del secolo XIII, sono circa 138.

La maggior parte di questi documenti risale al XIII secolo; una ventina di essi riguardano il periodo delle antiche donazioni anteriori al Mille*.

Tale documentazione è custodita in vari luoghi:

- dell’antico Archivio di Sesto è rimasta quella recuperata da M. Giuseppe Bini, arciprete di Gemona*, che si trova raccolta in un volume attualmente nell’Archivio di Stato di Venezia. Il volume consta di 38 pergamene che riportano notizie risalenti agli anni dal 762 al 1336; nello stesso Archivio si trova anche il fondo “Consultori in Jure”, busta n. 398 ed altre copie a stampa di documenti sestensi che volevano dimostrare all’autorità veneta il diritto dei Vescovi di Udine, sede del Patriarcato di Aquileia e di Concordia di potersi impossessare “in spiritualibus” delle spoglie della soppressa Abbazia di Sesto;

- alcuni manoscritti sono nell’Archivio dei Frari a Venezia, nel fondo “Provveditori sopra Feudi”;

- nella Biblioteca Comunale di Udine esistono 3 Volumi di pergamene ordinate cronologicamente, comprendenti circa 900 anni di storia dal 1705 al 1604;

- nell’Archivio di Stato di Udine, copie e regesti di documenti relativi al Fondo Congregazioni Religiose Soppresse;

- nell’Archivio Capitolare Udinese, collegato alla biblioteca del Seminario, vi è una serie di importantissimi manoscritti del Bini* e del Fontanini*;

- nella Biblioteca Guarneriana di S. Daniele del Friuli vi sono copie di documenti sestensi di mano di Giusto Fontanini, custodite nel fondo Fontanini in “ Varia Mss.” * ,

- nel Museo Archeologico Nazionale di Cividale, dov’è custodito l’Archivio Capitolare della città, si trovano copie manoscritte di documenti sestensi, redatti nella prima metà del 1800 da Michele della Torre Valsanina e raccolte fra le “ Pergamenae ex Archivio Capitulare”, Vol. I e II ; nel II Vol., documenti del XIII secolo.



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Il torrione d’accesso al convento è l’unico rimasto delle torri che si innalzavano dalle mura difensive del complesso; risale alla seconda metà del IX secolo ed è romanico. Venne restaurato nel 1541 dall’Abate Giovanni Grimani, di cui porta gli stemmi, in affresco, sulla facciata*.

Di fronte al torrione d’accesso, al centro dal complesso abbaziale, si erge un’altra torre, risalente alla seconda metà del 1100, che serviva di vedetta per la cittadella di Sesto e per tutta la zona circostante. E’ alta 33 metri e sessanta centimetri: la facciata è appena mossa da elementi architettonici costituiti da lesene centinate. Ebbe un finimento ottagonale che ora non esiste più in quanto distrutto da un fulmine il 3 maggio 1788 e non più ricostruito.

Attualmente si possono osservare una terza torre incorporata nel Palazzo della Cancelleria ed una quarta inserita nel Palazzo della Casa Canonica.



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L’Antica Cancelleria Abbaziale si trova a destra del Campanile. E’ un locale severo nella linea originaria alleggerito da graziose bifore, trifore, quadrifore ed esafore, alcune chiuse nel corso dei secoli, altre nel corso dei lavori di adattamento eseguiti nel 1927, allorché venne adibita a Scuola Materna. Conserva ancora frammenti di affreschi*.

A destra vicino al Campanile, il portone di accesso ad arco a tutto sesto che probabilmente serviva come passaggio ai locali del primitivo monastero*.







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In linea con il portico dell’Abbazia, l’antica residenza degli Abati si affaccia sulla piazzetta; la facciata conserva gli stemmi di cinque Abati commendatari*.

Era completamente decorata ad affresco con vari motivi; infatti nel corso dei restauri del 1969 sono tornate alla luce alcune pitture rappresentanti stemmi e scene cavalleresche* che si trovavano tra vecchie pareti in mattone, la più significativa delle quali è la cosiddetta “ Scena dell’Arciere ” *; ora l’Antica Abbazia è divenuta sede del Palazzo del Comune.

Dal piano terra una porta immetteva nel Refettorio Abbaziale, che oggi conserva tele di pittori del ‘700, resti di affreschi ed un crocefisso ligneo del ‘500 di autore ignoto.

Si possono ancora oggi osservare i resti di una antica decorazione con stemmi di Abati ed affreschi quattrocenteschi.

Questo luogo ora è divenuto Sala delle Udienze.











































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La Chiesa fu costruita insieme al Monastero che era ubicato certamente a nord di essa; dopo un primo rifacimento a seguito della devastazione ungarica, nel 1117 subì di nuovo gravi danni causati da un terremoto.

Lo spazio interno , a mio avviso, è stato suddiviso in tre navate dopo l’intervento del XII secolo. Esso è scandito da colonne e pilastri alternati. Il transetto sopraelevato, ha sullo sfondo tre absidi contrapposte alle tre navate, di cui la centrale, più vasta, termina con un abside semicircolare, sormontata da una volta a catino e conclusa da un arco trionfale. Le navate laterali, minori, più strette ed abbassate verso l’esterno, ospitano due piccoli altari. Le cupole sovrastanti le absidi non sono visibili dall’esterno. Le finestre a sguancio permettono, con l’aumento del passaggio di luce, una migliore illuminazione.

Tra i muri circolari delle absidi ed il muro perimetrale esterno è stato lasciato uno spazio intermedio*.

La parte ovest è stata oggetto nei secoli, di diverse modifiche strutturali. La parte del fianco sud reca le tracce di un grande portale murato.

Alla fine del 1700 gli archi erano certamente a tutto sesto e verso il 1850 vennero aperte quattro cappelle nelle navate laterali ove furono collocati altari barocchi.

Nel 1963 le cappelle furono demolite e gli altari ceduti alla Chiesa dei Padri Carmelitani Scalzi di Laste (Trento).

L’ambiente che precede la Chiesa è di estremo interesse; comprende un vestibolo (lungo ingresso – ambulacro) e un atrio (atrio quadriportico) che come afferma lo Zovatto è quasi un “Unicum”, nel suo genere.

La seconda parte, più larga, a tre navate divise da pilastri, avrebbe formato l’atrio propriamente detto.

Forse doveva servire come stazione di pubbliche penitenze, poiché nei pilastri sono infisse alcune lastre di marmo sporgenti, poste a diverse altezze, che sembra potessero servire come appoggio ai penitenti.

Le più antiche notizie che si riferiscono all’atrio si hanno la prima volta nel 1298 e successivamente nel 1332 “ sub logia dicti ”*.

Il pavimento è in cotto; il soffitto ligneo fu ricostruito ed abbassato verso il 1450 da Pietro Barbo.

L’atrio è illuminato da 5 finestre rettangolari distribuite asimmetricamente; i pilastri e gli archi sono romanici.

Fino al 1700, le due navate laterali sono servite anche da cimitero; diversi monaci ed Abati vi sono sepolti e se ne vedono ancora le pietre tombali; successivamente il camposanto fu realizzato nei pressi dell’Abbazia.

Attualmente ha le funzioni di un piccolo museo, dove sono raccolti alcuni reperti lapidei risalenti a varie epoche ed affreschi distaccati; tra questi una lunetta, rappresentante un “ San Benedetto ” asportata nel 1955 dal portale d’ingresso*, all’atrio che lo Zuliani, citato dalla Furlan ritiene essere di stile riminese.

Sopra il vestibolo e l’atrio si trova un vasto salone, provvisto di finestra solo dal lato meridionale, di cui si ignora l’uso originario.

Attualmente è Sala di Riunioni e Convegni.

La presenza di questo vasto salone superiore rende la costruzione molto simile “ all’èglise-porche ”, di origine carolingia.

Queste strutture furono molto diffuse dall’XI al XIII secolo nell’Europa centrale, soprattutto in Francia e Germania; non se ne conoscono in Italia, se non quella di Sesto, e per spiegarne la presenza in questo luogo bisogna riferirsi ad un vasto ambito di cultura europea, rielaborata dall’ambiente Benedettino nel periodo della rinascenza carolingia.

Il rapporto col tipo di costruzioni “ église-porche ” è confermato dalla presenza, sulla parete di fondo del salone sovrastante l’atrio, di un affresco raffigurante l’Arcangelo Michele al quale, probabilmente, in origine era stata dedicata una piccola cappella. Infatti lo storico Degani riporta una nota di D. M. Manni, nella quale si ricorda che nel monastero di Sesto “ erat quaedam parva ecclesia super quodam solario ” ed aggiunge : “ questa piccola cappella doveva esistere nella parte superiore dell’atrio della Chiesa….”.

L’ubicazione è esatta poiché le Chiese dedicate a S. Michele erano situate in posti elevati e le cappelle o semplicemente nicchie che gli venivano consacrate all’interno delle Chiese stesse, si trovavano ai piani superiori; questa è una regola seguita in ambito francese infatti le nicchie si incontrano al primo piano dei portici e dei narteci.

Quando invece il nartece è sprovvisto di primo piano perché non è previsto sin dall’inizio della costruzione, la Cappella di S. Michele si sviluppa nello spessore del muro, dalla cui superficie sporge un corpo aggettante all’interno della navata ( Cluny, Semur-en-Brionnais, Saulieu).

Per quanto riguarda i restauri subiti dal complesso, il de Carlo e lo Schaffran affermano che durante il primo rifacimento avvenuto dopo l’invasione ungarica, si usarono materiali recuperati dalle antiche costruzioni e per ciò che riguarda il restauro avvenuto nel 1912, curato dall’architetto Giuseppe Torres, non si è stati in grado di poter conoscere i documenti relativi.

A mio avviso, osservando “ in loco ” i punti di restauro ed attraverso notizie fornitemi dall’attuale Abate, posso sommariamente indicare i punti più visibilmente ristrutturati: consolidamento di alcune strutture della Chiesa, dell’atrio e del vestibolo; ripristino della quadrifora e della pentafora dell’atrio; demolizione dei soffitti piani delle navate e del tiburio per mettere in luce le vecchie travature a vista, che successivamente furono rinnovate e decorate secondo le tracce rinvenute nelle vecchie; sistemazione dei tetti; ricostruzione della cripta; rifacimento del piano del sovrastante presbiterio e delle gradinate laterali d’accesso; ripristino delle colonne rotonde tra pilastro e pilastro delle navate che precedentemente sembra fossero rivestite di marmo, dando così luogo a pilastri; riedificazione degli archi a tutto sesto.





































Al di sotto dell’altare maggiore si trova la Cripta che sebbene abbia subito diversi restauri dovrebbe appartenere al periodo successivo l’invasione ungara.

Vi si accede attraverso due aperture ad arco romano a destra ed a sinistra del pontile. Lungo la balaustra della scala si notano ancora le sagome degli antichi scalini. Anch’essa ha tre absidi circolari di dimensioni ridotte che corrispondono a quelle della Chiesa soprastante.

Tre finestre sopraelevate ad arco a tutto sesto, la illuminano discretamente.

Quattro colonne sostengono la volta a crociera; i capitelli, di cui solo alcuni sono antichi, hanno la forma cubica romanica e quella ad imbuto del tardo periodo ravennate studiati da Furlan.

Lungo le pareti si trovano sedili di pietra. Dalla pianta, dalla lavorazione e disposizione delle pietre, dai sedili, il cui margine è decorato da una dentellatura, si potrebbe far risalire la Cripta al periodo preromanico del IX secolo.

Dall’abside sinistra della Cripta un arco a tutto sesto immetteva, a mo avviso, in una cappella esterna o al cimitero.

La Cripta, ampia quanto il presbiterio sovrastante, è stata completamente ricostruita sulle tracce di quella primitiva. Il visitatore apostolico de Nores, Vescovo Parentino, ha lasciato una descrizione dell’infrastruttura che fu eliminata nel 1798 rialzando il pavimento di circa un metro e facendolo correre orizzontalmente dall’ingresso della Chiesa all’abside.

E’ stata ripristinata nel 1907, ad opera di Don Luigi Rosso, Vicario foraneo, impiegando gli elementi architettonici rinvenuti nello scavo.

Al centro della Cripta si conserva il “ Sarcofago di S. Anastasia ”, con figurazioni sulla fronte e sui lati*, opera che combina motivi della tradizione romano – ravennate degli archetti abbinati a pilastrini e colonnine tortili a motivi di riempimento nordici nelle rosette, negli alberelli, nei cerchietti con forellini, tutti con intaglio approfondito per ottenere un effetto coloristico vibrante; un grande cerchio racchiude una croce latina, riempita a treccia. Lo Shaffran e lo Zovatto lo attribuiscono con sicurezza all’VIII secolo.

Nell’abside di destra si vede una “ Pietà “, scolpita in pietra calcarea, policroma, probabilmente del XIV secolo.

Nell’abside di sinistra una “ Annunciazione ” in marmo, tipico esempio di bassorilievo gotico.



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La Chiesa era meta di pellegrinaggi poiché la Bolla del 16 aprile 1336 del Patriarca Bertrando di Aquileia concedeva indulgenze speciali a chi la visitasse per venerare le reliquie di S. Anastasia, matrona romana martirizzata nel 304, nel corso delle persecuzioni di Diocleziano, al tempo di Papa Marcellino e del Vescovo S. Cromazio. Il complesso fu, probabilmente, anche per questo motivo uno dei più importanti in quell’area. Questo è testimoniato dal vasto ciclo di affreschi che in esso si trova.

Una scala, costruita con vecchi blocchi di marmo, ornata da una ringhiera moderna e realizzata sulla destra dell’ingresso alla Chiesa della piazza antistante, conduce ad un salone formato da un unico locale rettangolare di cui si è già parlato nella parte dedicata all’architettura.

Nella parete di fondo si notano alcuni frammenti di un affresco studiato dalla Cozzi rappresentante l’Arcangelo Michele, di cui sono visibili alcuni tratti del volto. Nell’ingresso del salone, sul lato destro, alcuni affreschi rappresentanti scene cavalleresche sono stati portati alla luce nel restauro del 1970; dal punto di vista iconografico, hanno stretti rapporti, a mio avviso, con gli affreschi del Battistero della Cattedrale di Concordia Sagittaria,( XII secolo ) Portogruaro, con quelli della Cripta del Duomo di Aquileia ( fine del XII secolo ) e con quelli del Sacello romanico dedicato alla Vergine dell’Abbazia di Summaga, sede anch’essa di un monastero benedettino, il cui accento romanico consente di datarli all’ XI – XII secolo circa.

La facciata e le lunette d’ingresso alla Chiesa sono ornate da affreschi del XIII secolo - purtroppo in degrado - rappresentanti “S. Benedetto ed il diavolo” e “ L’Arcangelo Gabriele ”; sul lato sinistro del portale, un gruppo con “ la Madonna, S. Pietro e S. Giovanni Battista ”; sui pilastri del quadriportico, affreschi con la rappresentazione di “ S. Elena, S. Cristoforo e la Madonna ”, del XII secolo.

Dalla piazza antistante la Chiesa, si accede al vestibolo; vi si notano due grandi affreschi che rappresentano il “Paradiso”, ancora parzialmente visibile e l’ ”Inferno”, quasi del tutto perduto e di cui è rimasto solo il contorno delle ali di pipistrello di un grande demonio.

A fianco del Paradiso è rappresentata una scena raffigurante una Madonna in trono, fiancheggiata da due Santi, sotto uno dei quali è inginocchiato, in atto di adorazione, un membro della Famiglia Grimani.

Questo affresco potrebbe appartenere alla scuola quattrocentesca veneziana.

Sulle travi dell’impalcatura sono dipinti gli stemmi di alcuni Abati del XV e XVI secolo.

Quello che appare più di frequente è quello di Pietro Barbo, assurto alla carica nel 1441.

Oltre a questi affreschi, doveva esserci un’altra rappresentazione della quale rimane soltanto l’immagine dell’Arcangelo Michele.

Attraversato il vestibolo, si entra nell’atrio, precedentemente descritto, nel quale, sulla parete di fondo a destra, è dipinto l’affresco rappresentante l’ “Incontro dei tre vivi e dei tre morti” che dai resti di una iscrizione sottostante “Hoc opus…..AN…….MCC (spazio di quattro cifre) …..Di….XII….I”, viene datata dalla Furlan al 1350 ed accostata alla cultura di Vitale che operò ad Udine nel 1348.

Lo Schaffran, invece, la ritiene una tarda composizione giottesca del 1360 circa.

A sinistra dell’ingresso che porta all’interno della Chiesa, due figure di Santi “Agostino ed Ambrogio”, opera scadente del Rinascimento.

Dalla parte opposta, sulla parete destra, un affresco rappresentante “Cristo e S. Tommaso”, che si presume di arte veneziana del 1510 circa.

Gli affreschi sui pilastri ci rimandano alla pittura friulano – veneta medioevale.

Le pareti del vestibolo e dell’atrio erano tutte affrescate, come ci tramanda l’antica trascrizione fattane dal Cortinovis nel 1801 .

Anche l’interno della Chiesa doveva essere completamente affrescato ma ha subito gravissimi danni.

La vastità di questo ciclo di pitture richiese certamente l’opera di più maestranze, che lavoravano nello stesso periodo influenzandosi a vicenda e delle quali, attraverso l’esame di alcuni particolari stilistici e soluzioni iconografiche, si cercherà di determinare la provenienza e la diversa estrazione culturale, tenendo tuttavia conto che questo esame è compiuto su un’opera parziale ed in degrado.

In tempi precedenti, alcuni studiosi hanno spesso tentato di ricostruire, almeno parzialmente, la storia di queste opere di affresco e dei loro esecutori; ma poiché nulla ha potuto essere suffragato da documentazioni valide, sono state formulate solo delle ipotesi. Alcuni le ritenevano di scuola riminese, altri romagnola, altri ancora opera di pittori padovani seguaci di Giotto.

Dopo un primo esame, che verrà approfondito nel corso di questo lavoro, si può affermare che gli artisti, pur provenienti da culture diverse, furono influenzati dalle innovazioni che si verificarono alla fine del Duecento e nei primi del Trecento; tra queste assumono particolare rilievo quelle apportate dall’arte giottesca.

Si può immediatamente parlare della più importante, riguardante la scoperta dei valori spaziali con la creazione di finte inquadrature architettoniche realizzate da più punti di vista e sviluppate attraverso la rappresentazione di altane, verande, vani sovrapposti, edicole, cornici, rilievi policromati, finte architetture e mensole, zoccoli dei transetti, nelle quali si muovono immagini che danno l’illusione di entrare nello spazio reale dell’architettura circostante.

Questo cantiere, tuttavia, così vasto e complesso, dette vita ad una decorazione il cui concetto di fondo è senz’altro unitario.

Il primo restauro moderno fu affidato all’architetto Giuseppe Torres, nel 1912, che per primo scoprì nel catino dell’abside l’affresco rappresentante l’ “Incoronazione della Vergine”, circondata da angeli oranti.

Nella parte intermedia, sotto l’incoronazione, il riquadro di sinistra offre la rappresentazione del “Sogno dei Pastori”, e quello di destra “La nascita di Gesù”.

Nel sottoquadro inferiore del catino dell’abside, finte nicchie racchiudono cinque “Santi” di proporzioni naturali e sei busti di “Profeti” in quadriboli, circondati da decorazioni geometriche; sono rimasti solo tre dei cinque santi*.

Altre scoperte furono fatte successivamente, mettendo in luce tutto quanto restava dell’antico complesso di affreschi dedicato alla storia dei patroni; in particolare:

- la Vergine, i SS. Pietro e Giovanni Battista nella parte presbiterale;

- nella parete sud del tiburio, la “Consegna della cintola a Tommaso” e il “Transito della Vergine”;

- nel braccio destro del Transetto, “Storie di S. Pietro” così articolate:

. parete ovest: “La guarigione dello storpio” e “La Resurrazione della vedova Tabita” (illeggibili);

. parete est: “Il Santo che va incontro a Cristo sulle acque” (illeggibile);

. parete sud, “Consegna delle chiavi a S. Pietro” (sullo sfondo di edicole e nicchie, Cristo porge al Santo le chiavi del potere spirituale e l’Apostolo, attraverso il Pastorale, le trasmette a Lino);

. sulla stessa parete le Storie si concludono con la “Condanna dei SS: Pietro e Paolo” (illeggibile) ed il “Martirio di S. Pietro” (parzialmente leggibile);

. in questa stessa parete, dalla parte destra, l’ “Albero Mistico” o “Lignum Vitae”;

- nella parete nord del Tiburio e nel braccio sinistro del Transetto, le Storie di S. Giovanni Evangelista, tra le quali l’unica superstite è l’ “Assunzione di S. Giovanni”;

- nella parete ovest del Tiburio e nel quadrilungo, a destra e a sinistra, le “Storie di S. Benedetto” di cui restano il “Santo che istruisce i monaci” ed il “Santo che guarisce lo storpio”, nonché alcuni frammenti;

- nei pilastri e negli intradossi degli archi del Presbiterio, figure e busti di “Santi e Padri della Chiesa” entro quadrilobi e riquadri; - negli archivolti gli “Evangelisti”, dei quali ne rimangono due, parzialmente visibili;

- sopra l’attuale ingresso della Chiesa è un “Salvator Mundi”, quasi completamente distrutto, ed al quale non si può attribuire alcuna datazione;

- sul terzo pilastro a destra della navata centrale sono rappresentati un uomo ed una donna, che dovevano essere Ottone di Canossa e sua moglie Hagalberta, deduzione tratta dall’iscrizione “DA DIGARDA UXOR OTTONIS” che letta dal Cotinovis e riportata dallo Schaffran, si riferisce ad una nota del Pittiano, notaio a S. Daniele del Friuli, tra il 1570 ed il 1590;

- nella navata laterale sinistra:

. un affresco diviso in tre parti, delle quali la centrale è andata distrutta, che rappresenta una “serie di donne inginocchiare” a sinistra ed “una processione” a destra;

. un altro affresco con “due Santi”, di stile veneziano cosidetto di terraferma del sec. XVI.

Nei punti in cui gli affreschi sono scomparsi, sono stati sostituiti da rappresentazioni di finti marmi tuttora visibili.

Dopo aver brevemente illustrato quanto rimasto di questa vasta opera, si cercherà di analizzare, almeno nelle parti ancora leggibili, gli elementi che definiscono gli affreschi come opera di maestranze giottesche – padovane.

Da una prima notizia, non suffragata da documentazione alcuna, il de Carlo afferma che dopo il lavoro eseguito a Padova nella Cappella Scrovegni, Giotto era stato chiamato a decorare una piccola Cappella del Castello di Collalto, vicinissimo a Sesto, notizia che è stata ripetuta dal Degani.

Purtroppo, nessuna ricerca in tal senso ha dato esiti positivi, e pertanto non può essere determinante per l’attribuzione di questo ciclo a Giotto.

Secondo quanto afferma Zuliani, questo ciclo di affreschi è molto importante per la diffusione del giottismo nell’Italia nord- orientale e perciò si dovrebbe esaminarlo nella sua globalità.

Egli afferma che quest’opera è stata eseguita nell’arco di un lungo periodo, che va dall’XI al XVI secolo e da due diversi maestri.

Il “Maestro del Lignum Vitae”, potrebbe essere l’autore dei superstiti “Episodi di S. Benedetto” nel quadrilungo: “S. Benedetto che istruisce i monaci”, “S. Benedetto che guarisce lo storpio”, la “Decorazione absidale”; il “Martirio di S. Pietro”, l’ “Albero mistico”; l’artista, nella sua opera, ha voluto esprimere l’esigenza, pur nella semplicità delle architetture squadrate e ben delineate, di organizzare sistematicamente lo spazio, anche nella profusione descrittiva di particolari architettonici.

Questo tipo di metrica spaziale, pur semplificata, riconduce alla bottega di Giotto ed al periodo dei lavori nella Cappella Scrovegni e nella Cappella Peruzzi in S. Croce a Firenze, così come gli stessi temi spaziali si ricollegano alla Cappella della Maddalena ed alle prime “Storie di Cristo” del transetto della Basilica Inferiore di Assisi.

L’altro Maestro, autore degli “Episodi della vita di S. Pietro e di S. Giovanni” ormai quasi illeggibili, appare nella sua opera più concitato e drammatico, esprimendo il sentimento attraverso una plasticità impetuosa, sottolineata da brevi contrasti luministici e tensioni spaziali elaborate. Questo secondo artista tradisce l’influenza di pittori romagnoli, frammista alla cultura giottesca.

Sempre da quanto affermato dallo Zuliani, la formazione di questi due maestri potrebbe essere avvenuta sui lavori eseguiti a Padova ed in S. Croce e se ne potrebbe inquadrare l’attività a Sesto, durante la reggenza dell’Abate Lodovico della Frattina (1324-1336).

Per quanto concerne le figure dei “Santi” in grandezza naturale, i “Busti” nei quadrilobi e nei riquadri, le fasce vegetali delle ghiere, le tarsie cosmatesche, si nota una mano più alta, soprattutto per l’espressione vigorosa dei volti e dei contrasti chiaroscurali che sottolineano la gravità e l’intensità degli atteggiamenti, ma soprattutto nei tratti fisionomici in particolare quelli dei “Santi” che, come cita Zuliani, sono da accostare, al “S. Stefano” di Giotto, nel Museo Horne a Firenze.

Anche dallo Zeri questo ciclo fu definito un fatto “giottesco – padovano”.

Altri studiosi hanno parlato di questi affreschi, tra questi I. Furlan e G. B. Peressuti.

























Come detto in premessa, alla fine del ‘200 Giotto introdusse nella pittura grandi innovazioni, che risultano da una analisi critica degli affreschi giunti fino a noi.

Nel catino dell’abside è dipinta l’ “Incoronazione della Vergine”, un tema che ebbe grande sviluppo iconografico dal XIII secolo in poi e la raffigurazione di Sesto, a mio avviso, potrebbe risalire alla prima metà del Trecento.

Si nota subito la tecnica usata che ricorda quella giottesca; il contorno delle figure è inciso a punta e l’aureola è scolpita, raggiata ed a rilievo, seguendo la tecnica descritta dal Cennini che, usata per la prima volta nella Basilica Superiore di Assisi, si diffuse poi in tutta l’Italia. Fino alla fine del Duecento l’aureola era semplicemente dipinta ad affresco sulla parete, anche se vi erano già stati esempi di quel tipo nelle pitture su tavola di artisti oltremontani.

I colori fondamentali sono stati ottenuti dall’impasto di semplici terre che producono effetti reali. Il concetto di spazialità è particolarmente avvertibile nell’architettura del trono che con base geometrica allargata e leggermente fissa, tende a seguire l’impianto semicircolare del catino absidale le cui estremità si restringono verso l’alto terminando a cuspide.

I gradini del trono rimandano a quello dell’abside scrovegna, sulla quale è posta una tavola dipinta con l’ “Eterno che affida a Gabriele la missione”, ed ai troni dei “Dottori della Chiesa” nelle vele della basilica Superiore di Assisi.

Le decorazioni a tarsie erano inizialmente usate solo per decorare le incorniciature degli affreschi; successivamente le maestranze giottesche iniziarono ad usarle per decorare le architetture e le suppellettili delle scene affrescate.

Gli angeli che circondano il trono sono disposti in modo tale da suggerire lo spazio in cui si muovono liberi di parlare, suonare, cantare, mentre quelli in alto sostengono l’ampio manto decorato che fa da corona e sfondo al trono stesso.

I panneggi dei personaggi sono ampi, le stoffe sembrano assumere peso fisico, le pieghe sottolineano le movenze delle figure corporee, solide, con un’impostazione monumentale, quasi scultorea.

I volti degli angeli, alcuni visti di fronte, altri in scorcio, come anche la figura della Madonna che ha le mani incrociate sul petto, ricordano la singolare innovazione di Giotto nel raffigurare il personaggio di profilo e l’accorgimento da lui adottato per le aureole, non più a cerchio pieno, ma ovalizzate, scorciate.

Anche Zovatto afferma che questa decorazione si può ricollegare al linguaggio giottesco per gli elementi e gli schemi iconografici, desunti da narrazioni evangeliche apocrife, che si ritrovano negli affreschi di Giotto a Padova; lo stesso Toesca afferma: “…..essere più direttamente ispirati agli affreschi di Giotto a Padova….come quanto resta della Storia di S. Benedetto…..”.

Nel quadrilungo si trovano gli affreschi che si riferiscono alle storie di S. Benedetto. Inizialmente dovevano essere dodici affermano Zovatto, la Zulian ed altri studiosi già citati, ma ne sono rimasti solo due ancora leggibili: uno nella parete destra e l’altro nella parete sinistra. Ritengo che quello della parete sinistra possa riferirsi al “Santo che guarisce lo storpio”, a differenza di quanto afferma Zuliani che lo definisce “S. Benedetto che conforta i poveri”.

Il personaggio che sembra inginocchiato al di fuori dell’edicola è infatti sorretto, sotto le ascelle, da un uomo sul cui volto è descritta un’espressione interrogativa di speranza; il vecchio canuto alla loro sinistra, ha il viso assorto, attento, in muta preghiera; la sua testa, priva di collo, è quasi completamente assorbita dalle spalle reclinate; gli occhi volti a terra, appare quasi dilatato ed oppresso dal peso dei suoi pensieri.

Anche sugli altri volti si legge un’espressione di attesa, come nei due personaggi dell’uomo e della donna, i cui sguardi si incrociano in un silenzio colmo di aspettative ed il cui reverenziale timore è espresso dalla mano dell’uomo che si appoggia all’avambraccio della donna quasi cercando sostegno; questa, a sua volta, rivolge la sua verso il Santo.

Tutto è sovrastato dalla figura imponente, ascetica, vibrante del Santo, il cui volto esprime saggezza, bontà, dolcezza ma nello stesso tempo severità e determinazione riassunte nello sguardo intenso e nel gesto della mano protesa verso l’infelice.

Le figure del Santo e degli altri padri, racchiusi in una costruzione architettonica, sembrano emergere dal fondo, mentre aldilà del timpano compaiono il campanile ed il resto della costruzione, che potrebbe essere un’altra torre in riferimento a quelle dell’Abbazia, in quasi perfetto rapporto.

Nella parte destra dell’affresco appaiono i piani di fondo, dati dagli alberi e dalle loro fronde e tutto determina la tridimensionalità della scena con estremo ordine e precisione.

I panneggi dei personaggi, ampi, abbondanti di pieghe, ricadono con scioltezza e morbidezza, sottolineando ogni movimento e lasciando indovinare le forme dei corpi.

I colori, sebbene in gran parte deteriorati, hanno tonalità pure, come quelli usati da Giotto.

L’atteggiamento, pur mistico, è essenzialmente umano e traspare da esso incertezza, paura, profondità, attesa, speranza, tipici dell’opera di Giotto, che seppe tradurre i sentimenti e le emozioni umane in puro segno e colore: personaggi reali, colori reali, emozioni reali.

I visi della donna e del fanciullo o fanciulla, hanno il contorno ovale e pieno mentre quelli degli uomini hanno lineamenti scavati ed incisivi, forti zigomi amplificati da ombreggiature, nasi trattati con segno deciso e sottolineato lateralmente da profonde ombre per mettere in risalto lo zigomo e scavare la guancia; i capelli sono folti e gonfi, la barba riccia e spumosa. Questi particolari iconografici si riferiscono all’arte giottesca, come pure l’abbigliamento, discreto, essenziale, tipico dell’epoca: vesti corte sotto il ginocchio piedi ricoperti di semplici calzari, che vengono arrotolati appena sopra il polpaccio come nei personaggi Scrovegni.

I capelli della donna sono acconciati semplicemente e senza velo, come era nel costume di quel periodo.

L’abito del fanciullo, stretto da un cordone che lo cinge appena sotto le ascelle, potrebbe far pensare ad una fanciulla, perché quella era la foggia degli abiti delle donne in quel tempo, e lo ritroviamo negli affreschi padovani.

Nella scena del quadrilungo di destra si osserva “S. Benedetto che istruisce i monaci”.

Alcuni personaggi sono differenziati tra loro per importanza, data dagli abiti, e dalla foggia della barba e dei capelli: i frati giovani, come era costume del ‘300, hanno il viso rasato e la tonsura, descritta con minuzia di particolari, con attenzione ed accuratezza, come nei giovani francescani della Cappella Bardi a Firenze, mentre gli anziani hanno la barba, i capelli folti e ben acconciati.

Da notare, come precedentemente asserito per l’ affresco precedente, la costruzione dell’aula, la cui profondità è determinata dalla suddivisione delle volte per mezzo di archetti a sesto acuto ed archi a tutto sesto, posti con perfetta simmetria, intesi a dare maggior risalto, profondità e spaziosità all’aula.

Le decorazioni dell’ingresso dell’aula nella quale si trovano i monaci sono in stile cosmatesco e sono ripetute sulla fronte dei piani digradanti all’interno; sembrano culminare con la punta dell’arco a tutto sesto che si vede sullo sfondo, sopra la testa del frate emergente, quasi a creare, illusoriamente, un asse sul quale ruota e si forma la scena dando la sensazione di movimento e vibrazione.

La figura del Santo è stata posta al di fuori dell’aula, in primo piano per dare maggiore risalto alla sua immagine.

Tutta la scena sembra essere illuminata da un solo punto di luce.

Un altro particolare colpisce nei “Funebri di S. Benedetto” sulla parete ovest del tiburio e ricorda l’iconografia giottesca: è il lampadario sospeso alla volta, che per la forma ed il colore può essere messo in relazione a quelli della Cappella Scrovegni, nei due coretti dipinti sulla parete di fondo verso l’altare, ai lati dell’arco trionfale.

Poiché l’interesse di questo lavoro è volto a determinare in quale entità l’influenza giottesca modificò la pittura di quel periodo e quali luoghi la subirono in particolare, si ritiene necessario, oltre quanto è stato già detto, aggiungere altre particolarità che sottolineano con maggiore evidenza il nuovo modo con cui Giotto riusciva a descrivere emozioni, luoghi e pagine dei Vangeli con semplicità, in modo da essere compreso da un pubblico eterogeneo, composto da persone di diversa estrazione sociale e culturale.

Il ciclo pittorico della Chiesa comprende, oltre gli episodi che si svolgono lungo le pareti del quadrilungo, del tiburio e dell’abside, anche le ornamentazioni dei sottarchi, decorati a medaglioni, contornati da cornici e da sagome a finti marmi, in cui sono dipinte le teste dei Santi Padri della Chiesa e figurazioni minori in formelle e quadrilobi.

Le cornici cosmatesche racchiudono le storie e le separano tra loro, larghe ma non in rilievo, rendendo più evidenti le scene e dando un’articolazione architettonica alle pareti stesse della Chiesa; un illusionismo spaziale attraverso il quale sembra vedersi l’apertura di un ambiente al di là della parete, che costituisce una delle innovazioni della concezione dello spazio con la quale Giotto anticipa le soluzioni prospettiche quattrocentesche.

Nella resa pittorica c’è densità e morbidezza; il modellato rende tutto con ampia volumetria. Le figure rimandano, nei gesti e nell’equilibrio alla scultura antica. Il tono della narrazione è alto e solenne e le figure più importanti, pur essendo maestose, sono affabili e serene: “S. Benedetto che istruisce i monaci”.

Oltre ai personaggi principali, le figure di contorno hanno una loro espressività, caratterizzata da tratti fisionomici e rendono ciascuna la misura della propria condizione come i personaggi della scena di “S. Benedetto che guarisce lo storpio”.

Non più una rappresentanza ieratica e antinaturalistica come quella voluta dall’arte medioevale, ma immagini di scorcio, di profilo, coinvolte in atteggiamenti di lavoro quotidiano, domestico, addolciti da effetti di luce ed ombre che rendono nitide e vibranti le strutture e ricordano l’attenzione di Giotto agli effetti di luce ed agli elementi naturalistici che componevano la sua visione del mondo.





Come già detto, non esiste una documentazione probante tale da consentire un’attribuzione e quindi una possibile datazione del ciclo di affreschi esaminato.

L’analisi stilistica e quella iconografica hanno tuttavia permesso di individuare molti e consistenti elementi che inducono a correlare il ciclo con i lavori eseguiti a Padova ed a Firenze da seguaci di Giotto ed a collocarlo, quindi, nella prima metà del 1300; tesi, questa, sostenuta oltre che da tutti gli studiosi citati anche dallo Zuliani, il quale ritiene che il Maestro delle Storie di S. Benedetto potrebbe essere un aiuto di Giotto che, formatosi nel cantiere di Assisi, avrebbe seguito il maestro nel secondo soggiorno padovano.

















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ABBREVIAZIONI



Mem Stor For : Memorie Storiche Forogiuliesi

N Arch V : Nuovo Archivio Veneto

Boll Ud : Bollettino di udine

Arch V : Archivio Veneto

Ill It : Illustrazione Italiana

Boull Mon : Boulletin Monumental

RIASA : Rivista del R. Istituto di Archeologia e Storia dell’Arte

Boll Soc Fil Friul : Bollettino della Società Filologica Friuliana

E I : Enciclopedia Italiana



* Foto dell’autrice











BIBLIOGRAFIA



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Abate Mons. P. FURLANIS, 1985

































ILLUSTRAZIONI



Sigillo abbaziale : la Vergine attorniata da sette torri; sotto l’Abate

Abbazia di Sesto : (Disegno tratto da “Castelli, Terre e Città del Friuli, nel 1600”, M. S. Vincenzo JOPPI, 208, p. 20, conservato presso la Biblioteca Comunale di Udine)

Luoghi e zona donati il 29 aprile 927, dall’Imperatore OTTONE I al Patriarcato di Aquileia

Stemma del Cardinale Pietro Barbo, nato a Venezia nel 1417, nipote di Papa Eugenio IV, poi Papa Paolo II (1464-1471)

Torre vedetta e portone d’accesso

Antica cancelleria abbaziale : veduta d’insieme

Antica cancelleria abbaziale : particolari

Atrio : lunetta distaccata con “S. Benedetto”

Cripta : pianta

Cripta : veduta d’insieme

Cripta . sarcofago di S. Anastasia

Cripta : Annunciazione

Chiesa : ingresso

Salone sovrastante vestibolo ed atrio : ingresso parte destra con “Scene cavalleresche”

Chiesa : catino absidale con “Incoronazione della Vergine”

Chiesa : transetto (parete sud) con “La consegna delle chiavi a S. Pietro”

Chiesa : presbiterio con “Santi e Padri della Chiesa”

Chiesa : archivolti con “Evangelisti”

Chiesa : quadrilungo con “San Benedetto che guarisce lo storpio”.